“La crisi legata alla pandemia crea bisogno di liquidità nelle imprese e le mafie hanno quei soldi. In questo scenario gli imprenditori del Nord sono più esposti: c’è meno esperienza nella lotta alle mafie e manca una forte rete antiracket. Il rischio di una maggiore penetrazione della criminalità organizzata nelle aziende del Nord, di conseguenza, è molto alto. Per questo oggi bisogna organizzare una nuova resistenza sociale”. È l’allarme lanciato da Maurizio De Lucia, capo della procura di Messina, che spiega al fattoquotidiano.it quanto accennato già durante un collegamento online in occasione dei trent’anni dalla nascita, a Capo d’Orlando, della prima organizzazione antiracket. Una criminalità che si fa strada in un Nord dove manca una solida rete di supporto per gli imprenditori contro le mafie. Proprio adesso poi che con l’emergenza Covid le organizzazioni criminali hanno “la liquidità che serve agli imprenditori in difficoltà: un’occasione che le mafie non si faranno sfuggire”. Un ‘allerta lanciata da uno dei maggiori esperti in materia: De Lucia è stato sostituto procuratore a Palermo subito prima delle stragi, e negli anni seguenti rappresentò la pubblica accusa in alcuni tra i più noti processi della procura siciliana retta da Pietro Grasso. Titolare del procedimento che portò alla condanna di Totò Cuffaro per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, esperto di reati legati agli appalti e alle estorsioni, l’attuale procuratore di Messina è stato per quasi un decennio della Direzione nazionale antimafia. Ed avverte subito: “Bisogna scongiurare il patto del tavolino”. Il riferimento è all’omonimo sistema di turnazione mafiosa negli appalti pubblici, inventato tra gli anni ’80 e ’90, sul quale lo stesso De Lucia ha indagato: “Allo stesso tavolo sedevano mafiosi, imprenditori e politici”.
Dottore De Lucia, perché secondo lei il Nord non è pronto?
Paradossalmente mentre al Sud da decenni esistono associazioni radicate che hanno creato una solida struttura culturale di resistenza ai fenomeni estorsivi, così non si può dire del Nord. Dove agli imprenditori a mancare è proprio una rete, così che il singolo non ha quel supporto che gli permette di rivolgersi non solo alle forze di polizia, ma anche ai colleghi che hanno avuto la stessa esperienza: manca la forza dell’antiracket, di quell’associazionismo che ti accompagna nel percorso che segue la denuncia, mettendo anche a disposizione quel fondo antiracket di cui il singolo commerciante probabilmente sconosce perfino l’esistenza: così al Nord la capacità di resistere all’aggressione mafiosa è debole.
Perché è debole? Le mafie hanno messo radici al Nord da decenni.
È vero, ma è adesso che possono puntare a imprese meno sane.
Le mafie traggono profitto dall’emergenza sanitaria, come ha anche sottolineato il report di Libera e Lavialibera. In che modo il Covid-19 sta creando un terreno fertile per l’aggressione della criminalità?
In questo momento di pandemia, la sofferenza è nella liquidità, l’imprenditore del Nord come prima esigenza ha quella di avere soldi per sopravvivere. Grazie al traffico di droga le mafie hanno un’ampia disponibilità di contanti. Il titolare di un’azienda in crisi spesso sconosce la capacità di violenza del gruppo a cui si rivolge. Anzi, spesso lo considera solo un incolto, che può fregare con facilità, ma che poi si presenta con tutta la violenza di cui dispone, ed è lì la vera occasione della criminalità che riesce ad ottenere la cessione dell’impresa, perché l’imprenditore non incorre solo nel pericolo di non riuscire a restituire il denaro ma di dovere per questo cedere l’azienda, che verrà così acquisita dalla criminalità organizzata: è così che le mafie moltiplicano la capacità di penetrazione nel tessuto sociale di un territorio. Un modello che al Sud conosciamo bene, dove l’imprenditore sa cosa lo aspetta.
Nel report si parla di tremila fascicoli di indagini aperte dalle procure col nome Covid-19: perché la pandemia ha acceso gli appetiti delle organizzazioni mafiose?
Il meccanismo è sempre lo stesso: laddove ci sono occasioni di profitto, dove ci sono contesti opachi e fattori come l’urgenza o la capacità di grande liquidità la criminalità organizzata è di sicuro in allerta e bisogna alzare l’attenzione.
Tutto questo proprio mentre sono in arrivo i fondi del Recovery per fronteggiare la crisi dovuta alla pandemia: quanto è pericoloso?
Il momento è di certo molto particolare e molto ghiotto: le mafie si stanno organizzando per intercettare il denaro, per accaparrarsi gli appalti e quando entrano in contatto con l’imprenditoria entrano in contatto anche con gli uffici pubblici: bisogna scongiurare il tavolino.
Mentre al Sud siamo pronti?
Tendenzialmente in questo momento sì. È indubbio che dopo le stragi, la lotta alla mafia sia molto più avanti. Un imprenditore che non conosce la storia delle associazioni mafiose non capisce il pericolo in cui incorre.
Un po’ come quello che è successo in Germania poche settimane fa, quando un giudice ha respinto la richiesta di Maria Falcone di fare rimuovere la foto dei Marlon Brando nei panni di Don Vito Corleone accanto alla foto di Falcone e Borsellino, perché “i due magistrati hanno operato soprattutto in Italia”.
Un episodio che non va enfatizzato ma di certo frutto di chi non conosce la Storia d’Italia e delle mafie, ma attenzione: non la conoscono come dovrebbero neanche molti giudici italiani.
Ma in Germania la ‘Ndrangheta è la maggiore organizzazione criminale.
Hanno ignorato per molto tempo, o hanno finto di ignorare, ma dopo Duisbourg tutto è cambiato. E non scordiamo l’attacco di Die Weilt quando disse che la mafia in Italia aspetta i fondi Ue: la verità è che il rischio è maggiore lì dove manca una legislazione antimafia.
Cosa si può fare?
Alla base di tutto ci vogliono capacità repressiva ma anche conoscenza dei fenomeni culturali. In un’occasione andai in Olanda, per un omicidio della criminalità organizzata, sentii i poliziotti commentare che per fortuna si ammazzavano tra di loro: un grande errore di valutazione. Il mafioso che riesce a imporsi su un altro aumenta il suo potere e di conseguenza la sua capacità di esercitarlo e di penetrare nel tessuto sociale.