Un documentario su un’anziana pittrice siciliana ma vivente a Bologna, sconosciuta e scoperta dieci anni fa, e il “saggio visivo” sulle solitudini di sei cittadini borderline ritmate da brani d’archivio Rai. Cinema di pochissimi mezzi, ma dalla resa poetica esagerata
“Dipingere sotto la luce del giorno non va bene, attendo la luce della sera”. Basta scostare un attimo lo sguardo dal solito taglio di luce, come dal sempre identico menù della visione, per trovare piccole gioie del cinema. Il colore di sera, documentario diretto da Spartaco Capozzi, disponibile in questi giorni online al Festival del Cinema di Porretta 2020, è una di quelle opere d’arte dignitosamente e intensamente povere a cui ti aggrappi con gli occhi e che rimangono conficcate nel cuore, girata nel celebre quartiere della Bolognina (Navile) a Bologna, con al centro dell’inquadratura prima di tutto la nuca canuta, con spilla per capelli, dell’anziana signora Maria Concetta Cassarà. In campo scorre la divertita sorpresa di una settantenne nata in Sicilia, ma in Emilia da tempo, che nel 2010 viene scoperta inesausta pittrice da un’esperta d’arte e mostrata con tutti i crismi, cataloghi, vernissage, e vendita e esposizione ufficiale dei dipinti addirittura in un museo tedesco. Non si tratta di nessun genio dell’arte, ma di una versione possibile, originale, riconoscibile, personalissima della pittura. Maria Concetta ha iniziato tardi con pennello e carta, sui 60 anni, perché prima doveva dedicarsi alla famiglia. La donna propone una pittura semplice, con figure bidimensionali, un’esplosione inaudita di colori, e un tratto fatto di piccole pennellate, virgole, puntini, che spesso negli sfondi assumono una sorta di connotato strabordante vitalità, magico e caldo. Maria Concetta ha la quinta elementare, un rapporto conflittuale con tal Alfio (che non abbiamo capito se essere uno dei figli o nipoti, ma come dire, non è così importante) e vive sola in un appartamento di un quartiere popolare urbanisticamente e culturalmente in trasformazione. Capozzi decide di entrare nella casa della protagonista, facendole spiegare ascissa e ordinata informativa da documentario classico, ma poi succede qualcosa di inatteso. Entra in campo anche il regista, lo schermo tende a dividersi in due, ed è come se la protagonista diventasse il doppio dell’autore, e viceversa. Capozzi si mostra, si racconta lieve e mai invadente, assieme a Maria Concetta: la interpella in campo, la accompagna in auto, si siede fronte macchina con lei su una seggiola di paglia e legno in mezzo a quei pazzeschi grattacieli in costruzione della Bolognina. Capozzi “attore” corrompe la narrazione che t’attendi, duplica la matrice del racconto, che per un po’ sembra come far perdere la centralità alla donna. Quando invece Capozzi e Cassarà diventano, nel loro tentativo naturale di costruire la propria arte, lo stesso essere umano dolente, naif, fallibile, con una sorta, da parte del regista, di simbiosi herzoghiana verso il proprio personaggio folle e controcorrente, mescolata ad un rigore stilistico (pur con mancanza di grandi mezzi tecnici) da cinema iraniano di inizio anni novanta (il camera car nel sottopassaggio è un omaggio a Makhmalbaf, chissà…). Il colore di sera, con quella ulteriore combinazione “colorata” tra sfondi urbani, graffiti, murales che mutano politicamente lo skyline locale, e i dipinti vorticosi della signora che fanno scricchiolare le certezze del mainstream critico, scorre verso una decina di minuti finali in cui si entra in pura apnea performativa. L’audio si spegne (del resto non c’è commento musicale se non sui titoli di coda), Capozzi torna ad uscire di scena, la macchina da presa si immerge nella sospensione dei dipinti della Cassarà nel suo silenzioso farsi, sopra ad un tavolaccio qualunque, di una casa qualsiasi, la protagonista e la sua arte spariscono gradualmente riflessi sempre più fiocamente su quel tavolo in un’unica inquadratura da brividi. I titoli di coda con una trovata d’animazione di classe cristallina chiudono il cerchio. Sublime e dolorosissimo.