Ancora una volta, Egitto, Etiopia e Sudan non sono riusciti a porre le basi di un negoziato credibile per risolvere la controversia sulla diga che Addis Abeba sta costruendo sul Nilo Azzurro. Gli inutili colloqui del novembre scorso non hanno rotto il gelo innescato dalla brillante uscita di Donald Trump: persa la pazienza, il Cairo potrebbe far saltare in aria la diga; letteralmente “blowing up the dam”. Il governo etiope, pur con gravi problemi interni, non l’aveva presa bene.

A luglio, l’Etiopia ha iniziato a invasare le acque nella Grand Ethiopian Renaissance Dam o Gerd, l’enorme diga in costruzione 40 chilometri a valle della confluenza con il fiume Beles e 15 dal confine con il Sudan. E, per tutta risposta, nel mese scorso gli Stati Uniti hanno annunciato la sospensione di una quota dei loro aiuti finanziari all’Etiopia, per via della decisione “unilaterale” di avviare l’invaso da parte di Addis Abeba. Nel mondo moderno, lupus e agnus sono ruoli più complessi e meno netti di quelli evocati nell’eterna favola di Fedro.

Da progetto, la diga potrà invasare a regime fino a 59 miliardi di metri cubi d’acqua, su una capacità totale di 74. La potenza installata di 5.150 Megawatt – circa un quarto dell’idroelettrico installato in Italia, con più di 4mila impianti – potrebbe fornire grosso modo 16 Terawattora di energia ogni anno, circa il 5 percento dei consumi elettrici italiani del 2019. Un sollievo enorme, uno strumento forte per contrastare la piaga della povertà nel corno d’Africa.

Egitto e Sudan chiedono da tempo una soluzione politica alla controversia, respingendo ogni azione unilaterale da parte etiope. A sua volta, l’Etiopia non ha mai accettato l’accordo del 1959 che Egitto e Sudan siglarono in vista della costruzione della diga di Aswan. L’Egitto si rifà pure al Trattato del 1929, siglato con la Gran Bretagna che all’epoca rappresentava Uganda, Kenya, Tanganica e Sudan. Un accordo coloniale mai sottoscritto dall’Etiopia. Nel 2010, quel trattato fu rigettato dagli altri paesi che condividono le acque del Nilo, con la firma di un Accordo Quadro Cooperativo che garantisce a ogni paese di sviluppare i propri progetti sulle acque del fiume senza il previo consenso dell’Egitto. E, naturalmente, l’Egitto si rifiuta a sua volta di riconoscere questo accordo.

Completata la Gerd, sul Nilo insisteranno due delle più grandi dighe del mondo: la High Aswan Dam (Had) egiziana, operativa dal 1970, e appunto la Gerd (v. Figura 1). Senza un accordo sulla regola operativa della nuova diga, il pericolo di un conflitto tra le due nazioni non è trascurabile, alla luce delle scarse risorse idriche dell’area. Una ricerca pubblicata di recente su Nature Communications chiarisce i potenziali rischi della vicenda, simulando il transitorio di riempimento dell’invaso e il suo successivo impatto a medio e lungo termine. Si tratta di una simulazione basata sui dati storici, secondo lo schema tradizionale del “ritorno al futuro”: che cosa sarebbe successo in passato se fosse esistita la Gerd?

A fine riempimento, i deflussi a valle della Gerd potrebbero comunque garantire sufficienti risorse all’Egitto sul medio e lungo periodo, ma solo in caso di “normalità” meteo e idrologica. In caso di prolungate siccità, la Gerd potrebbe invece mettere seriamente in difficoltà il sedicente agnello Had se l’apparente lupo a monte sarà troppo cattivo. Non solo, durante la delicata fase di riempimento della Gerd, il serbatoio della Had potrebbe scendere a livelli mai visti (v. Figura 2). Se in condizioni “normali” l’opera porterà vantaggi enormi all’Etiopia senza pesare in modo significativo sugli utenti egiziani, la gestione delle siccità pluriennali richiederà un attento coordinamento, sul filo del rasoio.

Il Nilo è il padre di tutti i fiumi, non solo il fiume più lungo del mondo. Il suo bacino comprende vasti territori di diversi stati: Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan, Ruanda, Tanzania e Sud Sudan. Non è facile riconoscere chi sia lupo e chi agnello, in un contesto naturale, ambientale, economico e culturale complesso e delicato.

Nell’inverno del 1988 ebbi l’onore e l’onere di presentare all’allora dittatore etiope la componente idroelettrica del piano energetico nazionale. Era stato sviluppato da un consorzio tecnico-scientifico italiano. Tutto avvenne in pompa magna mentre il paese era già sull’orlo della guerra civile. Ma, in quel momento, non avvertimmo che tutto sarebbe crollato a breve.

Avevamo l’illusione di contribuire allo sviluppo di un grande paese dalle enormi potenzialità, nel tentativo di fornire all’Africa mezzi di sviluppo autonomo, anziché armi da guerra e guerriglia. Confesso che, durante quel viaggio in Etiopia, mi figuravo nei panni di uno dei tre centurioni che Nerone Imperatore aveva inviato in missione nel cuore dell’Africa. Avevano l’obiettivo di scoprire il caput Nili, le sorgenti del Nilo. Non ci sarebbero mai arrivati, ma furono più vicini alla meta di molti altri esploratori che affrontarono questo cimento nei secoli a venire.

Negli anni della co-operazione, noi europei avevamo sottovalutato i potenziali conflitti che avrebbe potuto innescare la regolazione dei fiumi alimentati dal castello delle acque africano. E che le controversie sulla Gerd e sulle cinque dighe di Gibe sull’Omo, tre delle quali realizzate, mettono oggi in luce. La Terra ha bisogno di dighe se, entro il 2050, vuole ospitare dignitosamente nove miliardi di persone. E le dighe hanno bisogno non solo di una visione eco-sistemica che ne garantisca la sostenibilità ambientale, ma anche di pace e di condivisione.

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