Nel tempo in cui i nonni ci lasciano, e i sopravvissuti – pur di difendersi dalla falce del virus – sono costretti a imbalsamarsi nella solitudine, un nonno ha scritto la più bella epigrafe sulla tomba di un suo figlio.

Quel nonno è Giovanni Trapattoni, la cui biografia accompagna tutta l’Italia del dopoguerra. Campione in campo, negli anni della grande emigrazione, in cui Milano e Torino, Genova e l’Emilia erano la terra promessa dei tanti meridionali che cercavano un riscatto, una nuova vita. E campione in panchina in quelli seguenti. Con lui, nella trentennale attività di allenatore, è cresciuta una classe di giocatori straordinari. Tra questi, Paolo Rossi, anzi Pablito, la nostra stella al Mundial di Spagna. Oggi a lui, che è andato via anzitempo, Trapattoni, i cui anni si contano a decine, contesta lo scambio di posto, l’ultima ingiustizia.

E’ un tweet di una riga: “Caro Paolo, i giocatori non dovrebbero andarsene prima degli allenatori”.

E’ il più bel ricordo e insieme la più bella carezza, il più generoso degli addii in questo anno terribile, che non ci risparmia e non ci lascia tregua.

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