di Cristina Zibellini
Questa del Recovery fund sembra essere considerata unanimemente un’occasione storica. Aggiungerei: una di quelle che possono cambiare lo stato di cose esistenti, nonostante la stratificata, secolare realtà che le presuppone. E’ qualcosa da far tremare le gambe e, forse, solo uno come Giuseppe Conte, che appare avere l’intelligenza dei fatti, l’onestà di chi è out rispetto ai mondi di quelli che sanno sempre tutto e stanno da sempre in ogni luogo del sistema dei poteri, quasi un modo mistico di credere nella possibilità di governare, può guidare questa impresa.
E’ chiaro che il premier, e chi con lui sta governando in questi mesi, sa che la strozzatura è rappresentata dalle resistenze dei burocrati ministeriali, nella diffusa opacità e inconcludenza dei comportamenti dell’amministrazione pubblica centrale, periferica e degli enti territoriali.
Un mondo a parte, quello della Pubblica Amministrazione, al limite dell’istituzione totale, dove una volta timbrato il cartellino si entra in una dimensione in cui le dinamiche interne sono regolate da modi che si riproducono nel tempo, stabilendo codici di comportamento che prevalgono sulla funzione, sulle norme da applicare, sugli obiettivi previsti da leggi e indirizzi governativi.
E questo è senz’altro causato anche da interessi economici personali, corruzione e infiltrazioni varie, ma trova il suo terreno più fertile nel clima di omertà che serve a proteggere proprio questo “mondo a parte”, marginalizzando chi non si immedesima nei codici e, a mio avviso, vanificando ogni volta anche il più serio degli sforzi politici, come quello che ricorda Fabrizio Barca su Micromega, avvenuto negli anni Settanta, con l’inserimento di giovani pieni di voglia di impegnarsi nello Stato, inteso a quel tempo come amministratore della cosa pubblica.
La cabina di regia, perciò, presentata da Conte sa di commissariamento e l’opposizione politica all’interno del governo non stupisce, e neppure le ipocrite argomentazioni dei suoi ministri, perché dover rispondere di inerzie, incapacità, mette il dito nell’altro aspetto tradizionale della gestione amministrativa, che è quello di un protagonismo formale cui non corrisponde mai l’assunzione di responsabilità, l’indirizzo, la verifica del lavoro di tutta la catena operativa.
Il prof. Barca sottolineava, sul Fatto, l’importanza della prevista assunzione di 500 mila giovani nella Pubblica Amministrazione, criticandone le modalità: alla chetichella, senza condividere con la cittadinanza e le associazioni la predisposizione dei bandi. Condivido la critica e va senz’altro fatto lo sforzo di sollecitare e non disperdere le energie migliori delle nuove generazioni, sostenendole e accomunandone il percorso.
Alla domanda “Serve una mega task force con dei manager?”, sempre il professor Barca risponde di no e parla di irrobustire la Pubblica Amministrazione con un forte presidio nazionale: si riferisce all’inserimento massiccio e veloce di questi giovani? I tempi sembrano troppo stretti per permettere a questa generazione di prendere su di sé il carico di questi progetti, sempre ricordando che la ragnatela della Pubblica Amministrazione che conosco io ne ostacolerebbe visioni e lavoro, oltre a non fornire loro alcun orientamento.
Istituire una struttura piramidale e parallela a quella che esiste e ha funzioni e competenze istituzionali è una sconfitta, ma la realtà è questa: progetti e finanziamenti si incagliano da sempre in qualcosa di poco definito e, di solito, penalmente irrilevante; ingoiati da un sottobosco di poteri e interessi che si intrecciano, che trasformano in una materia amorfa anche il piano meglio elaborato e strutturato, fino a che quella materia giacerà, dimenticata, sorpassata dai tempi delle opportunità.
Questa task force, che potrebbe sembrare mastodontica, è un tentativo estremo in una situazione che è oggettivamente di emergenza. Riusciranno i nostri eroi a operare in un clima ostile, con tanti nemici interni pronti a pugnalare il nemico della democrazia?