La sentenza delle Sezioni Unite civili mette la parola fine su una diatriba giudiziaria che andava avanti da 9 anni tra il team di legali che rappresenta i familiari di centinaia di vittime e il Registro italiano navale, uno dei principali enti di certificazione di sicurezza: "La giurisdizione è italiana". Secondo i legali, il traghetto avrebbe navigato nonostante gravi difetti e carenze non rilevate né corrette dal Rina. Nel naufragio morirono 1.097 persone
La causa civile contro il Rina per il risarcimento dei danni alle vittime del naufragio del traghetto Al Salam Boccaccio 98, un affondamento che causò 1.097 morti nel mar Rosso, resta in Italia. Definitivamente. Altro che Panama. La sentenza delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione mette la parola fine su una diatriba giudiziaria che andava avanti da 9 anni tra il team di legali che rappresenta i familiari delle vittime e il Registro italiano navale, uno dei principali enti di certificazione di sicurezza a bordo delle navi. Dopo il pronunciamento nello stesso senso della Corte di Giustizia Europea, il collegio della Suprema Corte, presieduto da Pietro Curzio, ha messo la parola fine sulla vicenda: “La giurisdizione è del giudice italiano”.
L’Al Salam Boccaccio 98, nave ex Tirrenia costruita trent’anni prima nei cantieri di Castellammare di Stabia, subì un incendio a bordo, si capovolse e affondò il 3 febbraio 2006 nel mar Rosso mentre era in mare tra Dhiba, in Arabia Saudita, e il porto di Safaga, in Egitto. Ad avviso degli avvocati Marco Bona e Stefano Bertone, che rappresentano le i familiari delle vittime, il traghetto avrebbe navigato nonostante gravi difetti e carenze non rilevate né corrette dal Rina. Per questo i legali degli studi Ambrosio&Commodo e Bona-Oliva e Associati hanno intentato la causa civile nei confronti del Rina, controllato dall’Ente Registro Italiano Navale: la sede di entrambe le società è a Genova e al Tribunale del capoluogo ligure si erano rivolti gli avvocati. Ma il Rina, che aveva classificato e certificato il traghetto, aveva chiesto di trasferire la causa a Panama, perché, a suo avviso, stava agendo per conto dello Stato centroamericano, vista la bandiera battente dal traghetto. E in conseguenza di ciò, avrebbe dovuto godere dell’immunità garantita agli Stati.
Il Tribunale di Genova e la Corte d’Appello, rispettivamente nel 2012 e nel 2017, avevano accolto l’eccezione e dichiarato il difetto di giurisdizione. Ma gli avvocati dei parenti delle vittime hanno impugnato in Cassazione. E la Suprema Corte ha dato loro ragione, come già a maggio aveva sentenziato la Corte di Giustizia Europea: la giurisdizione è quella italiana. In sostanza, il Rina non era stato investito di poteri sovrani da parte delle autorità panamensi, ma svolgeva i controlli e dava il via libera all’interno di procedure internazionali prestabilite. E lo faceva da Genova. “Per giunta retribuito dall’armatore”, fanno notare i legali.
Questi nove anni “si sarebbero dovuti impiegare per affrontare con un’indagine tecnica le cause dell’incendio e dell’affondamento anziché trattare queste schermaglie davvero infondate di Rina – sottolineano gli avvocati Stefano Bertone e Marco Bona – Possiamo dire che per i primi 8 anni del processo ha vinto la consueta prassi del mondo armatoriale di fuggire in tutti in modi dal confronto sul merito degli incidenti, ma che nel giro di pochi mesi la situazione si è completamente ribaltata”. Bertone e Bona, che negli anni sono volati in India per recuperare pezzi di una nave gemella a supporto della loro tesi, continuano: “Le perizie dei nostri diversi esperti stabiliscono che Rina ha responsabilità nel disastro, come peraltro gli investigatori egiziani hanno già affermato dopo aver studiato i dati della tragedia”. Nel dettaglio, secondo i legali, si parla di “difettosità del sistema di drenaggio nel garage scaturita dalla ricostruzione della nave nel 1991″, “errata progettazione che ha permesso l’accumulo di enormi quantità dell’acqua antincendio che hanno fatto ribaltare la nave”, poi affondata con oltre 1.000 corpi al suo interno.
Non solo: “Il comandante a causa dell’assenza di informazioni nei manuali di bordo non aveva a disposizione i dati necessari per comprendere cosa stesse accadendo al proprio traghetto, tanto che continuò a caricare le zavorre di acqua per bilanciare lo sbandamento con effetti opposti a quelli desiderati – aggiungono Bertone Bona – A questo si aggiunse un malfunzionamento della timoneria e l’assenza di indicazioni anche sull’effetto del vento sulla stabilità laterale, tutte informazioni invece indispensabili e vitali per gli ufficiali in comando.
Il richiamo della Cassazione alla centralità dei diritti dell’uomo ed alla necessità di proteggerli ci fa guardare alle prossime fasi processuali con la consueta pazienza e molta più serenità”.
Per il Rina non si tratta del primo guaio giudiziario. Per l’affondamento nel 1999 della petroliera Erika, che si spezzò in due al largo della Bretagna, il Registro italiano navale è già stato condannato in Francia per i danni ambientali. A Genova è aperta anche un’inchiesta penale, terzo filone del procedimento per l’incidente del Jolly Nero, sulle presunte “certificazioni facili” del Registro nel quale, come svelato recentemente dal Fatto Quotidiano, gli investigatori ipotizzano anche la corruzione. Il Tribunale civile di Bari, invece, dovrà decidere invece sulla citazione in giudizio – da parte degli stessi studi che si sono interessati dell’Al Salam Boccaccio 98 – per l’incidente del Norman Atlantic, incendiatosi mentre navigava tra Igoumenitsa e Ancona il 28 dicembre 2014: i giudici dovranno stabilire se il Rina dovesse vietare o meno la presenza di enormi ‘finestroni’ laterali sul ponte 4 della nave, aperture che secondo le vittime hanno influito sui tempi di rilevamento e sulla propagazione incontenibile del rogo. “Le nuove navi gemelle di Norman Atlantic – fanno notare Bertone e Bona – vengono costruite senza quelle aperture”.
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