Il regista sudcoreano aveva 59 anni. Avrebbe dovuto girare un altro film, il suo 24esimo film. Premiato a Venezia e Berlino è stato l'autore di capolavori assoluti
Avrebbe dovuto girare un altro film, il suo 24esimo, Kim Ki-duk. Il regista sudcoreano morto a 59 anni per complicanze legate al Covid-19 durante un soggiorno in Lettonia. Una fine assurda, nebulosa, solitaria, che sembra uscita da un suo script affidato alla regia di un Bela Tarr. Un Kim ancora travolto dal recente scandalo #MeToo che cerca di recuperare un’aura probabilmente perduta si imbarca in una co-produzione coreana-lettone, arriva in ritardo per la presentazione degli aiuti di stato della repubblica baltica, quindi torna a fine novembre in Lettonia per ripresentare la domanda e cercare un alloggio dove rimanere per qualche mese. Poi all’improvviso Kim scompare. Nessuno sa più nulla di lui per giorni, fino a quando un sito web delfi.lv ne annuncia il decesso in un ospedale lettone per complicanze legate al Covid, anche se di seri problemi di salute il regista sudcoreano, perlopiù non proprio un anziano, apparentemente non ne aveva.
Kim rimane e rimarrà un regista cult. Uno di quegli autori del nuovo cinema coreano che si impone nei festival internazionali a partire da metà/fine anni novanta, dopo il periodo d’oro dei cinquanta/sessanta, e che in qualche modo è legato a doppio filo all’ultimo Oscar al miglior film 2020 per quel Parasite, diretto da un altro sudcoreano come Bong Joon-Ho. Molti ricorderanno che la popolarità in Occidente di Kim irruppe nel 2000 dopo che L’isola venne presentato al Festival di Venezia. Impossibile rimanere indifferenti a questa rappresentazione cruda ed iperrealista, quasi muta, di una storia carnale tra un uomo e una donna nascosti tra le nebbie di una specie di villaggetto per pescatori composto da tante casette galleggianti su un lago. I simboli forti del loro legame sono proprio degli ami da pesca che finiscono per avere varie funzioni e si incuneano nella bocca e nell’esofago di lui, come nella vagina di lei. Kim qui esprime già tutta la forza dirompente di un cinema doloroso e coinvolgente, stressato nei dettagli simbolici e carnali fino all’estremo.
Nel 2001 torna con un altro titolo importante, Address Unknown che aprirà nella sua narrazione il forte filone tematico dell’occupazione militare statunitense in Corea del Sud che tornerà spesso nei suoi film come The Coast Guard, o dell’ultimo titolo distribuito in Italia, Il prigioniero coreano. Kim colpirà nuovamente nel cuore dei già numerosi fan nel 2003 con Primavera, estate, autunno, inverno e ancora…primavera. Cinema “allo stato puro” che, come scrisse Oscar Iarussi “si sottrae alla narrazione e alla sintesi”. Ancora una chiatta con sopra un tempietto buddista in mezzo ad un lago isolato dal mondo e la circolarità dell’esistenza trasmessa da un bambino che crescerà, diventerà adulto, si farà monaco e ancora invecchierà e da anziano monaco si prenderà di nuovo cura di un bambino. Scansando il doppiaggio in italiano, Primavera, estate… è forse il film più esteticamente rifinito, spettacolare ed esotico di Kim.
Apice che tocca, probabilmente con Ferro 3 nel 2004, film che finirà nel Concorso del festival di Venezia con la trovata del titolo a sorpresa, voluta dall’allora direttore Marco Muller. Ferro 3 è pura impalpabilità dell’essenza del racconto cinematografico, una ricerca poeticamente illusoria di un centro fisico di un cinema che si riproduce sempre in quell’alone aleatorio della sofferenza individuale come in pochi hanno saputo fare al mondo. Il protagonista, un senza fissa dimora, che si introduce nelle case altrui, le cura, le vive, fino a quando viene scoperto da una donna, vittima della violenza del marito, e con lei inizia una fuga romantica tra case vuote, è un plot incredibile che si sviluppa poi con un apice visionario e struggente senza eguali: il protagonista che della sua invisibilità agli occhi del mondo aveva fatto una ragione di vita, viene incarcerato e in cella affina una tecnica illusionistica fino addirittura a scomparire realmente di fronte al prossimo.
Il 2012 è l’anno invece di Pietà. Leone d’oro a Venezia, autentico summa poetica della triade amore-dolore-violenza che ha intriso i suoi titoli anni dieci (La samaritana, L’arco, Moebius) con un protagonista picchiatore e torturatore al soldo di un usuraio che improvvisamente si redime scoprendo che è inseguito da tempo da una povera donna che si rivela sua madre. Il senso di colpa e il rimorso che il protagonista prova per i gesti violenti compiuti verso i “clienti” dell’usuraio, e che lo portano ad una radicale redenzione, rivela questo aspro confronto che Kim ha sempre voluto gettare sullo schermo senza sconti emotivi nei contraccolpi dell’anima, riuscendo contemporaneamente a sublimare il dolore in una sorta di simbolico sacrificio della carne.
Kim Ki-duk è stato regista, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia prolifico ma autore estremamente divisivo, tanto che, nonostante le partecipazioni continue ai più prestigiosi festival mondiali (Venezia, Cannes, Berlino, Locarno), è stato sempre tenuto a debita distanza dall’establishment dell’industria coreana del cinema. Dinamica che ha comunque permesso a Kim di lavorare sì con esigui budget, ma in totale autonomia creativa e indipendenza tematica. Nel 2015 ebbe comunque l’occasione di fare il salto industriale firmando per dirigere un film in Cina – Who is God – sostenuto anche da un ex dirigente Disney, con un budget stellare di 37 milioni di dollari, ma nell’estate del 2016 dopo l’ennesimo scambio di accuse tra Cina e Corea del Sud il progetto naufragò. Infine, tra il 2017 e il 2018 Kim finì nel tritacarne del #MeToo dopo che un’attrice con cui aveva lavorato lo denunciò per violenza sessuale. Caso che, come ricorda Variety, venne parzialmente archiviato per mancanza di prove e chiuso col pagamento di una multa da parte del regista. Successivamente altre tre attrici l’hanno accusato di molestie chiudendo in maniera pressoché definitiva la sua carriera in Corea del Sud.