Ecco come sono morti i tanti ‘Giulio Regeni egiziani’. Il regime instaurato dall’ex generale diventato presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, e le sue ombre: mille cittadini egiziani deceduti nelle mani dello Stato, all’interno di prigioni, caserme, stazioni di polizia, corti militari e così via. In tanti hanno fatto la stessa fine di Giulio Regeni, giovani come il ricercatore italiano torturato e ucciso dentro uno delle stanze segrete della National Security del Cairo.
Dal suo insediamento dopo il golpe nei confronti dell’ex leader, Mohamed Morsi, nella primavera del 2013, all’ottobre scorso ben 1.058 persone sono morte all’interno dei centri di detenzione egiziani. Nei primi dieci mesi dell’anno in corso sono stati già 100 i soggetti detenuti o in attesa di giudizio morti in circostanze ricollegabili a precise responsabilità degli apparati statali: cure negate, torture, suicidi, pessime condizioni di detenzione. In un report di 53 pagine presentato nei giorni scorsi a Ginevra, il Cfj, Committee for Justice, inchioda alle proprie responsabilità l’apparato repressivo del Paese dei Faraoni.
Il nome scelto dai vertici della ong internazionale per la campagna di accusa contro il regime del Cairo si lega all’attualità e soprattutto all’Italia: ‘I Giulio Regeni d’Egitto dal 2013’. Questo per allargare lo sguardo sulla cruda realtà in cui versa uno dei partner commerciali più graditi dal nostro governo sotto il profilo dei diritti umani: “Giulio Regeni non è stata l’unica vittima delle autorità egiziane. Dopo il suo omicidio ne sono accaduti altri nei confronti di stranieri, penso al francese Eric Lange, l’americano James Henry Lawne e altri, uccisi a sangue freddo e senza alcuna conseguenza penale nei confronti dei loro torturatori e assassini. Si tratta di pochi casi rispetto alla moltitudine dei nostri connazionali fatti fuori dal regime in quanto considerati scomodi. Ciò che sta accadendo in Egitto da alcuni anni a questa parte è ammantato da un silenzio internazionale sospetto”. La denuncia arriva dal direttore esecutivo di Cfj, Ahmed Mefreh, che ha presentato il resoconto dettagliato del report.
Il Committee for Justice nell’imbastire il documento non si è basato sul semplice concetto del ‘sentito dire’ oppure accontentandosi di prove deboli o confutabili. Il lavoro è stato lungo e certosino. I ricercatori della ong hanno analizzato, nei limiti delle loro possibilità, ogni singolo carteggio legato ad altrettante vittime decedute mentre si trovavano nelle mani dello Stato. Un dato su tutti fa riflettere e rimanda alla drammatica dinamica dietro la fine di Giulio Regeni. Dei 1.058 casi ricostruiti più della metà si sono consumati all’interno di stazioni di polizia, in ben 584 circostanze, e non come si poteva immaginare nelle prigioni del Paese come la famigerata Tora, dove le vittime sono state 359. Interessante il dato legato alle morti dentro ai veicoli per il trasporto dei prigionieri: 43 quelle ricostruite dal Cfj.
A seguire ci sono i casi nelle prigioni militari (6), nei centri di sicurezza (20), all’interno dei tribunali (16, tra cui è emblematico il caso dell’ex presidente Morsi stroncato da un infarto, secondo la ricostruzione ufficiale, nel 2019), negli ospedali (8) e così via. Analizzando il percorso periodico della scia di sangue partita dall’insediamento della presidenza al-Sisi, si scopre come dagli 85 casi del 2013 (soltanto nella seconda metà) nei due anni successivi si siano raggiunti record inavvicinabili: 183 decessi nel 2014 e addirittura 217 nel 2015. L’anno successivo, quello iniziato con l’assassinio di Giulio Regeni, la statistica è scesa a 129 e via di seguito con le 146 morti del 2017, 108 del 2018 e il livello più basso con i 90 casi dell’anno scorso.
Il punto di svolta rappresentato dalle proteste nelle strade e nelle piazze d’Egitto del 20 settembre 2019, sull’onda lunga delle accuse lanciate via social dall’ex attore Mohamed Ali, ha prodotto una nuova escalation repressiva da parte del regime. Nel corso dell’anno temporale successivo una campagna di arresti mai vista prima, diverse migliaia in ogni angolo dell’Egitto, ha di nuovo scosso la stabilità di uno Stato spaventato dal rischio di una rivoluzione-bis come quella di quasi dieci anni fa. Sedare sul nascere qualsiasi moto di libertà è stata la ricetta attraverso cui al-Sisi e il suo apparato dirigenziale si sono garantiti il pieno controllo della situazione.
L’attenzione massima è centralizzata sul Cairo, la metropoli tentacolare, e sui suoi governatorati confinanti, da Minya a Giza, da Qalyubia a Fayoum e così via. Nelle prigioni e nelle sedi degli apparati della sicurezza della capitale si è verificata quasi una morte su quattro, da quanto emerge dal report, 236 vittime, 204 tra Minya e Giza, a cui si devono aggiungere i 64 casi di Alessandria d’Egitto e almeno una ventina di altre località.
C’è poi la sezione più agghiacciante del report, ossia l’analisi sulle cause di morte di sospetti, arrestati e detenuti. Partiamo dal dato originale, le 85 vittime da giugno a dicembre del 2013: secondo il documento del Cfj il 57% dei decessi è da attribuire a brutali torture e un altro 36% alla negazione delle cure sanitarie. Una voce preponderante nell’arco del settennato sotto esame, con 761 cause di morte sulle 1.058 complessive. La percentuale dei decessi per torture è diminuito sensibilmente rispetto ai primi sei mesi della presidenza al-Sisi, dal 57% al 14%, che in termini numerici fa comunque 144 casi.
Il 2020 passerà alla storia come l’anno dell’emergenza pandemica, anche in Egitto dove ad oggi si registra una percentuale di morti, quasi 7mila, molto elevata rispetto ai casi accertati, circa 120mila aggiornati a ieri. Secondo il report del Committee for Justice l’incidenza del coronavirus sulla salute dei detenuti degli istituti di pena egiziani ha provocato 17 decessi tra i casi accertati per Covid-19 da febbraio ad ottobre. Infine un dato statistico particolare: dei 100 decessi registrati nei primi dieci mesi dell’anno in Egitto, più della metà sono raggruppati in quattro mesi. Dodici a maggio e luglio, 14 a settembre e 15 a giugno.