Il governo cinese ha annunciato di aver eradicato la povertà assoluta nel paese. I metodi utilizzati per raggiungere i risultati lasciano però spazio alle critiche, a partire dal dislocamento forzato. Ora la sfida è su rischi di ricadute e disuguaglianze.

di Alessia Amighini, Irene Solmone e Massimo Taddei (Fonte: lavoce.info)

Raggiunto l’obiettivo lanciato nel 2012

Il 23 novembre il governo cinese ha dichiarato di aver eradicato la povertà assoluta nel paese, un obiettivo ambizioso annunciato nel 2012, quando le persone in quelle condizioni erano ancora quasi 90 milioni. Il presidente Xi Jinping è stato il primo leader cinese a essersi impegnato non solo a ridurre l’incidenza della povertà, ma a eliminarla totalmente, mentre una migliore distribuzione del reddito è tra gli obiettivi per il prossimo futuro.

Il raggiungimento dell’obiettivo – che come era prevedibile è stato criticato per i metodi, i criteri di misurazione e la sua stessa sostenibilità – è frutto innegabile di una campagna che ha portato a risultati inimmaginabili in altre aree del mondo: circa 750 milioni di persone sono uscite dalla povertà in poco meno di trent’anni e la Cina ha contribuito per il 60 per cento alla riduzione del tasso di povertà mondiale tra il 1990 e il 2018.

In quanto ai metodi, il governo cinese ha utilizzato una serie di misure capaci di incanalare i benefici della forte crescita economica anche verso le fasce di popolazione più deboli (cioè meno istruite e con meno possibilità di trovare un lavoro stabile vicino alla propria residenza), soprattutto attraverso programmi di reinsediamento delle persone più disagiate dalle aree rurali verso i centri urbani.

Il pacchetto di aiuti ai poveri, che viene definito “Due assicurazioni e tre garanzie”, include le esigenze alimentari e di vestiario della popolazione rurale meno abbiente e garantisce loro l’accesso all’istruzione obbligatoria, ai servizi medici di base e a un alloggio sicuro. L’accesso all’acqua potabile, per esempio, un servizio fondamentale in un paese di quasi un miliardo e mezzo di abitanti, è stato fortemente ampliato, sia nelle aree urbane che in quelle rurali: ancora oggi resta limitato per circa 100 milioni di persone, ma venti anni lo era per più di 250 milioni.

Il miglioramento delle condizioni di vita non si è limitato ai servizi di base, ma ha contribuito all’espansione della classe media cinese. Oggi il reddito pro capite è dieci volte quello del 2000 (da 940 dollari all’anno a 10.410 dollari nel 2019) e poco più della metà della popolazione rientra nella classe di reddito media secondo la classificazione della Banca Mondiale (tra 3650 e 18.250 dollari l’anno). La crescita del benessere dei cittadini cinesi è stata molto rapida: nel 2000 il reddito pro capite era il penultimo dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che sono considerati paesi in via di sviluppo particolarmente promettenti, mentre nel 2019 era secondo solo a quello russo.

Questi risultati mettono la società cinese sulla buona strada per diventare “moderatamente prospera”, come annunciato da Xi Jinping durante il diciannovesimo congresso del Partito comunista cinese nel 2017. Infatti, la dimensione della coorte dei redditi medi è passata da oltre 100 milioni nel 2010 a più di 400 milioni nel 2019, e si prevede che il numero raddoppierà a 800 milioni entro il 2035.

Se i progressi fatti sono inequivocabili, i mezzi utilizzati per raggiungere gli obiettivi di Xi Jinping sono stati molto criticati e la Cina è ancora lontana dal poter dire di aver risolto completamente il problema della povertà, che resterà una sfida anche dopo il 2020. Il 17 per cento della popolazione cinese (237,2 milioni di persone) vive ancora al di sotto della soglia di povertà della Banca Mondiale per i paesi a reddito medio-alto. Nonostante la percentuale di popolazione in povertà assoluta sia stata ridotta quasi a zero, il 17 per cento dei cinesi guadagna ancora meno di 5,50 dollari al giorno e poco meno della metà guadagna meno di 10 dollari al giorno.

Per quanto si sia rivelato un metodo efficace, il dislocamento forzoso di milioni di persone è stato portato avanti in maniera indiscriminata, attuando ordini dall’alto incuranti delle preferenze di chi è stato obbligato a traslocare. In molti casi i villaggi vuoti sono stati demoliti e molte persone che hanno difficoltà a trovare un impiego preferirebbero tornare a coltivare una terra ormai espropriata. La corsa verso le città spesso ha lasciato le comunità rurali con popolazioni in calo e minori opportunità di lavoro.

Inoltre, non sempre viene garantito l’accesso a una rete di protezione sociale per via di un sistema di registrazione del domicilio (il sistema hukou) che danneggia i migranti provenienti da zone rurali. A questo si aggiunge un alto livello di corruzione tra i funzionari locali incaricati di scegliere quali villaggi sgomberare.

Bisogna poi ricordare che molti di coloro che sono usciti dalla povertà negli ultimi anni dipendono dall’aiuto del governo e rischiano di ricadere sotto la soglia di povertà dopo che la campagna sarà dichiarata un successo. Vale soprattutto per le province occidentali del paese, dove poche sono le opportunità di lavoro e le persone fanno affidamento su impieghi su base giornaliera che li costringono spesso al pendolarismo.

Il governo ha annunciato l’inizio di una seconda fase volta a creare lavori stabili in modo da mantenere fuori dalla povertà assoluta i milioni di persone che ne sono appena uscite, ma le misure di tutela economica attuate finora sono state anch’esse molto criticate. Il programma Dibao, che dovrebbe garantire trasferimenti in denaro ai più poveri, ne è un esempio: copre solo il 3,1 per cento della popolazione e i fondi del governo sono gestiti dai funzionari locali, spesso in maniera arbitraria.

Inoltre, la percentuale di popolazione in una situazione lavorativa definita “vulnerabile”, ovvero con una retribuzione inadeguata o condizioni di lavoro difficili, è ancora più del 40 per cento, la seconda più alta tra i Brics.

Infine, la crescita economica, insieme a una riduzione della povertà, ha portato anche a una crescita della disuguaglianza: la percentuale di reddito detenuta dal 20 per cento più ricco della popolazione è aumentata dal 1990, a discapito delle fasce meno abbienti. Nel 2019, il rapporto tra reddito pro capite reale urbano-rurale è stato di 2,64, rispetto al 2,73 del 2015, indicando una leggera riduzione del divario tra il reddito delle città e quello delle campagne. A ben vedere, è proprio il continuo aumento dei salari urbani rispetto a quelli rurali uno dei fattori che ha permesso di ridurre drasticamente la povertà, dal momento che nelle città sono state create maggiori opportunità di impiego (sia per i regolari residenti urbani, sia per le forze di lavoro cosiddette ‘flottanti’, cioè i lavoratori rurali pendolari verso le città). Oggi i residenti rurali ricollocati nei centri urbani hanno maggiore accesso ai servizi essenziali, ma non per questo hanno superato stabilmente la condizione di indigenza, se al maggior costo della vita in città non corrispondono salari adeguati.

L’eliminazione formale della povertà assoluta è sicuramente un risultato straordinario, ma per far diventare la Cina il paese “prospero” sognato da Xi Jinping, il governo dovrà impegnarsi in futuro per renderlo una conquista duratura, Per farlo, è necessario migliorare le condizioni di vita delle persone appena uscite dalla povertà ed evitare che vi ricadano. Ed è necessario ridurre le disuguaglianze, in particolare quella tra le città e le aree rurali. Quest’ultimo infatti è uno degli obiettivi del XIV Piano quinquennale per gli anni 2021-2025.

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