“Sì, Facebook è diventata una minaccia” (Yes, Facebook has become a menace). Così si esprime già nel titolo Kara Swisher sul New York Times in un “pungente” articolo che inizia ricordando proprio che il Dipartimento di Giustizia americano, insieme a 20 Stati, è intervenuto l’ultima volta solo nell’ormai lontano 1998 a moderare lo strapotere dei giganti tecnologici.
Quella volta fu contro Microsoft, allo scopo di evitare quello che in pochi anni era ormai diventato un monopolio del software dedicato agli individui e alle piccole entità operative nei vari settori imprenditoriali, in questo accompagnato dai costruttori dei primi “Desk-top”, i mini-computers personali.
Tuttavia l’intervento è stato più di “facciata” che di peso significativo poiché tutti i grandi “Big Tech” sorti dopo quel fugace intervento “sono stati comunque trattati come se fossero delicatissimi fiori […] con ridicole sanzioni, mentre si susseguivano una dopo l’altra le acquisizioni e le fusioni” , come dice ancora la Swisher. Risultato: in meno di vent’anni i loro fondatori sono arrivati tutti in vetta alla classifica degli uomini (o donne) più ricchi del mondo.
Nella tabella qui allegata (che ho preparato su dati del febbraio 2018 pubblicati da Credit Suisse) si può notare l’incredibile entità dell’avanzo finanziario, quasi totalmente incontrollato, che deriva dall’attività di questi colossi economico-finanziari che hanno un flusso di entrate (e di utili accantonati nei paradisi fiscali, come risulta dalla tabella) persino superiori in molti casi a quelli di alcuni Stati di piccole o medie dimensioni.
Non sono tutte “Big Tech”, ma le prime cinque si, (cui si aggiunge la Qualcomm all’ottavo posto, e non ci sono ancora Facebook e nemmeno Amazon!).
– Apple ($216 miliardi),
– Microsoft ($109 miliardi),
– Cisco ($60 miliardi),
– Oracle ($48 miliardi),
– Alphabet (Google) ($43 miliardi),
– Johnson & Johnson ($38 miliardi),
– Pfizer ($35 miliardi),
– Qualcomm ($30 miliardi),
– Amgen ($29 miliardi),
– Merck ($25 miliardi).
Facebook non è un colosso tech, tuttavia proprio per l’agilità e l’ampiezza del settore che occupa (socialmediatico e pubblicitario strettamente correlati) ha potuto inizialmente operare in assenza totale di concorrenza e, successivamente, ha impedito a chiunque (con la forza del denaro e con tecniche sostanzialmente monopolistiche) di invadere tutto il proprio territorio operativo già nel 2019 (praticamente tutto il territorio economico-commerciale del capitalismo occidentale).
I casi di Instagram e WhatsApp, acquistati appunto grazie al grande surplus operativo accantonato, ma anche con metodi di convincimento non del tutto “rispettosi” delle altrui opportunità (di cui si è già fatto ampio cenno sul Fatto Quotidiano del 10 dicembre scorso), sono emblematici in questo senso e, a questo punto, diventava evidente l’invasione nel campo dell’Antitrust americano, che ha quindi aperto un fascicolo a carico di Facebook e, per adesso, di Google e Amazon, ovvero le imprese maggiormente cresciute grazie ad un uso estremamente disinvolto della pubblicità online e dei motori di ricerca.
A sostenere l’accusa contro i tre colossi del web è la Federal Trade Commission insieme a 46 Stati Usa (su 50) oltre ai distretti federali di Columbia e di Guam e, dove la tagliola è più vicina a colpire (come sostiene ancora la Swisher) è proprio Facebook, per il suo lungo abuso di potere dominante nel suo campo.
Apparentemente, con tutti questi “cani da caccia” alle calcagna, sembrerebbe proprio che Facebook sia senza scampo ma, come osserva ancora la Swisher, con un misero budget di soli 330 milioni e soli 1100 impiegati a condurre l’accusa (che ovviamente non ha solo quello da fare), la conclusione non è poi cosi scontata e lo abbiamo già visto durante la presidenza Obama: quando al Senato la maggioranza è dei repubblicani, certe “cose” diventano difficili, se non impossibili, da fare.
Senza contare poi che anche in Europa la Commissione Europea alla Concorrenza (controlli antitrust affidati alla danese Margrethe Vestager), sta indagando allo scopo di fermare il monopolio che, di fatto, si è venuto a creare anche nel nostro continente ad opera di Google ed Amazon.
La contemporanea azione “transatlantica” in difesa del libero mercato (un bel po’ tardiva peraltro) riesce senza dubbio a dare un po’ di speranza e di respiro alle piccole e medie imprese che, oltre alle chiusure forzate dalla pandemia hanno dovuto difendersi anche dall’inarrestabile invasione di questi colossi del web, che proprio dalla pandemia hanno invece potuto trarre un “passpartout” capace di superare tutti i confini.
A meno che l’Amministrazione uscente (Trumpiana e a maggioranza repubblicana nel Senato) abbia inteso preparare il terreno per una disgregazione del “potere californiano” (in California hanno sede i maggiori “Big Tech” americani, notoriamente con forte prevalenza filo-democratica).
Ma questa è dietrologia e si può solo pensare, senza però del tutto trascurare. Sarebbe però molto deprimente se dovesse emergere che veramente i massimi ideologi del “libero mercato” si fossero decisi ad agire, con molto ritardo, e solo per motivi prettamente politici.