Calcio

Il Cadice si riprende la Liga: abbandonato il ricordo utopico del Mágico González, macina punti col 4-4-2 e concretezza di mister Cervera

Cinque anni fa, il Cadiz era un piccolo club che navigava nelle acque limacciose della Segunda B, il terzo livello del calcio spagnolo, sognando ancora le prodezze del genio salvadoregno che ha lasciato la cittadina sullo Stretto ormai 29 anni fa. Per raggiungere il mare aperto della promozione serviva un’idea. Così la dirigenza decise di affidare la squadra ad Álvaro Cervera che ha riportato la squadra nel calcio che conta, stravolgendo la filosofia della società andalusa

Lui ha fatto le valigie una mattina di 29 anni fa. Eppure non c’è luogo della città che non parli ancora di lui. È come se i mattoni delle case, l’asfalto delle strade, il legno delle panchine, i banconi dei bar avessero assorbito la sua anima giorno dopo giorno. Per otto lunghi anni. Perché a Cadice parlare di calcio vuol dire parlare del Mágico González. E parlare del Mágico González vuol dire parlare di tutto tranne che di calcio. Significa fare i conti con se stessi, sfogliare le pagine del proprio album di ricordi, ritornare con la mente a quando tutto sembrava possibile. O almeno è così in Andalusia.

A Cadice quell’attaccante dal naso pronunciato e dalle gambe a stecchino non ha solo giocato a pallone. Ha vissuto. Si è ubriacato. Ha ballato in discoteca fino a quando la notte non è sfumata in mattina. Ha avuto figli da un’amante. Ha dormito sempre troppo a lungo e corso sempre troppo poco. Ma, soprattutto, ha regalato a una città ai margini del calcio mondiale la possibilità di ammirare uno dei giocatori più forti al mondo. Finte, dribbling, gol. Ancora e ancora e ancora. Fino a ridisegnare l’immaginario collettivo, a rendere più labile il confine fra il possibile e l’impossibile.

A Cadice era arrivato nel 1982, dopo aver dato buca ai dirigenti del Psg che lo aspettavano per chiudere il contratto. Aveva detto che non voleva avere tutte quelle responsabilità. Così si era guardato altrove. E sotto il sole dell’Andalusia, in quelle città che assomigliano a paesi e in quella bellezza decadente che sembra ricordare continuamente che il meglio è già alle spalle, aveva trovato il posto giusto per portare a termine la sua missione. Perché Mágico González è stato un calciatore dal talento inferiore soltanto alla sua capacità di dilapidarlo.

“È di un’altra galassia”, ha detto una volta Maradona. Ed è vero. Perché con un minimo di disciplina il salvadoregno sarebbe potuto diventare uno dei calciatori più forti della storia. E invece è stato molto di più. È stato il Mágico González. È per questo che a Cadice non c’è un prima e un dopo di lui. La grandezza del suo calcio è racchiusa in un’eternità che si fa continuo presente, che passa di bocca in bocca sempre con una sottrazione di realtà e un’aggiunta di leggenda. Un loop eterno che ora sembra essersi finalmente spezzato. Perché da qualche tempo in quella cittadina di centomila abitanti si è tornati a parlare di futuro. Merito di una squadra che è stata capace di arrampicarsi fino al quinto posto della Liga. E di farlo grazie a un calcio totalmente opposto rispetto a quello messo in campo dal Mágico.

La storia inizia quasi cinque anni fa, quando il Cadiz era un piccolo club che navigava nelle acque limacciose della Segunda B, il terzo livello del calcio spagnolo. Per raggiungere il mare aperto della promozione serve un’idea. Così la dirigenza decide di affidare la squadra ad Álvaro Cervera, ex centrocampista del Valencia che aveva allenato per lo più in terza serie. Le sue idee sono piuttosto semplici, il suo calcio ha il sapore di pane e salame. Attenzione difensiva e ripartenza. E poco più. Un concetto che il mister ripete a ogni intervista. E che dà i suoi frutti.

La scalata viene completata la scorsa estate, quando il Cadice torna nella massima serie dopo 14 anni di purgatorio. Un successo che viene accolto con la simpatia che di solito si riserva alle meteore. Solo che gli andalusi non hanno nessuna intenzione di recitare la parte delle comparse. In estate assemblano una squadra con un’idea precisa: mantenere l’identità che ha permesso al club di centrare la promozione chiudendo solo qualche colpo. Ma senza spendere molto. Il grosso del mercato è fatto di acquisti in prestito con diritto di riscatto e di un unico giocatore arrivato a parametro zero. Si chiama Alvaro Negredo e nel suo passato remoto fra Siviglia, Valencia e Manchester City si era guadagnato il soprannome di El Tiburon, lo squalo. In verità qualcuno afferma che quel pescecane abbia i denti poco affilati. Il suo biennio all’Al-Nasr era stato condito da 25 reti. Ma si trattava sempre di un torneo non esattamente competitivo. Dubbi tanti, certezze poche. All’attaccante, però, sono bastati pochi minuti per dimostrare di non aver scambiato Cadice per il prepensionamento. In 12 partite Negredo ha segnato 3 gol e servito altrettanti assist, con un impatto del 54.55% sul volume offensivo della squadra. Al resto ci hanno pensato le idee di Cervera, uno che sul suo casco e sullo spogliatoio del Cadice ha fatto scrivere una frase che è diventata un manifesto programmatico: “La lucha no se negocia”, una versione iberica del motto di Ferraris IV “Chi si astiene dalla lotta…”.

Perché l’intensità è la pietra su cui edificare il suo calcio, l’idea sulla quale modellare il suo 4-4-2. A dargli ragione ci hanno pensato le vittorie esterne contro Athletic Bilbao e Real Madrid e il successo interno contro il Barcellona della scorsa settimana. Un filotto che gli ha appicciato sulla schiena l’etichetta di ammazzagrandi e che ha trasformato il Cadice nella prima squadra ad aver battuto nella stessa stagione i tre club del calcio spagnolo che possono vantarsi di non essere mai retrocessi. Un traguardo clamoroso per una squadra che ha una rosa da appena 38 milioni di euro. Solo l’Elche, con 33, vale di meno.

Le vittorie hanno offerto a Cervera la possibilità di trasformare una provocazione in un aforisma. “Il possesso palla è sopravvalutato”, aveva detto qualche tempo fa. Un concetto sul quale è tornato dopo la vittoria sui blaugrana, ottenuta tenendo il pallone per appena il 18% del tempo. “In Spagna ci sono due club che ti costringono a stare indietro – ha spiegato a fine partita – il Barcellona necessita del possesso palla per vincere, noi no. Questo non vuol dire che il possesso sia da evitare, anzi. Ma il Barcellona con la palla lunga e i lanci in velocità non è così efficace. Per noi, spesso, il possesso palla è un problema. Perché tenere il pallone non è una cosa che si dice. È una cosa che si fa. E metterlo in pratica non è poi così semplice”.

Cervera, però, è perfettamente consapevole che il suo calcio non sia il più moderno e spettacolare su piazza. Ma è l’unico che può mettere in pratica la sua squadra. “So che alcuni calciatori vorrebbero giocare in un altro modo, ma questi risultati permettono almeno di farli crescere grazie al lavoro che facciamo”. Così Cervera va avanti nella sua direzione ostinata e contraria. Come il pesciolino rosso sul poster che si vede in Fargo, dove c’è scritto “E se fossero gli altri a sbagliarsi?”. In attesa di trovare una risposta all’interrogativo, Cadice si gode la sua squadra dal presente solido e dal futuro fragile. Una squadra così diversa da quella del Mágico González. E proprio per questo così bella. E pazienza se nell’ultima di Liga ne ha presi quattro dal Celta a Vigo.