Cronaca

Coronavirus, Galli: “Curva scende più lentamente di quanto si sperava. Un’alleanza sui vaccini o saremo costretti a sopportare costi evitabili”

L'INTERVISTA - L'infettivologo, primario del reparto di Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, avverte: "Meno si chiude, più è lungo il processo di rallentamento. Rischiamo di essere nei guai già a gennaio. E tenere i reparti convertiti, vuol dire non assistere validamente gli altri malati con conseguenze pesanti". E a gennaio si rientra a scuola: "Ha un ruolo rilevante nel contagio. Importantissimo riaprire, ma bisogna farlo gestendo bene le problematiche connesse"

La curva si piega, ma meno si chiude e più è lenta la discesa dei contagi. Per questo i numeri oggi “non rassicurano” e cresce la paura che le festività natalizie si trasformino nell’incubatore dentro il quale Sars-Cov-2 riprende vigore. Insomma: “Rischiamo di essere nei guai già a gennaio”, avverte l’infettivologo Massimo Galli riferendosi in particolare alle strutture sanitarie, che tornerebbero sotto pressione. “Basta poco”, riflette il primario del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano. E tutto avverrebbe proprio mentre è in programma l’avvio della campagna vaccinale, per la quale auspica una “alleanza”, finora mancata con i giovani, affinché sia davvero di massa, altrimenti il virus “continuerà a sottoporci a costi economici e organizzativi che potremmo evitare”. Prima c’è di mezzo il Natale e la discussione su quali norme anti-Covid bisognerà introdurre, anche perché a gennaio è previsto il rientro a scuola, che ha una “rilevanza” nella diffusione del virus a causa dei “movimenti che avvengono a monte e a valle delle ore trascorse in aula”.

Professore, arriveranno ulteriori restrizioni durante le feste. È davvero solo colpa dei cittadini e degli assembramenti a cui abbiamo assistito nel weekend o forse è perché i contagi sono ancora troppo alti e la frenata è lenta?
Per decidere di prendere determinate posizioni, qualcosa è cambiato. Altrimenti perché il Comitato tecnico scientifico sta chiedendo al governo di dare una stretta ulteriore? Siamo tutti quanti vogliosi di stabilire quella che qualche sconsiderato chiama la dittatura dei virologi o i numeri non rassicurano? Io direi la seconda. Ci sono elementi di preoccupazione perché la curva rallenta ma non con la velocità che era auspicabile e con differenze palesi all’interno del Paese. La chiusura limitata degli scorsi mesi sta comportando una discesa allungata. In altre parole: meno si chiude, più è lungo il processo di rallentamento.

Quindi non siamo nelle condizioni di trascorrere il Natale come era stato programmato solo due settimane fa?
Se c’è un rilassamento delle misure negli ambiti collegati alla possibilità di ulteriore diffusione dell’infezione, avendo ancora molto virus in giro, aumentano le probabilità di una recrudescenza del contagio. Per questo rischiamo di essere nei guai già a gennaio, con la riproposizione di fenomeni che avremmo voluto dimenticare dopo il primo lockdown e invece sono ritornati. Vale solo la pena ricordare il gran numero di morti, persone che purtroppo settimane fa non siamo riusciti a salvare da questa malattia. Anche la curva dei decessi, del resto, cala a seconda di quanto movimento siamo riusciti a limitare nel tempo. E teniamo sempre d’occhio il numero dei ricoverati, il dato più robusto per capire l’andamento dell’epidemia. Per fortuna lo abbiamo visto flettersi, ma basta molto poco perché risalga.

In questa situazione è possibile, come previsto, la riapertura delle scuole il 7 gennaio?
Deve essere molto, ma molto chiara una cosa: le scuole non sono irrilevanti nella diffusione del virus. Non per il contesto ambientale, quanto per i movimenti che avvengono a monte e a valle delle ore trascorse in aula. I dati parziali del Miur, pubblicati nelle scorse settimane e aggiornati al 31 ottobre, parlavano di 65mila casi di infezione correlati alla scuola. In quella data il totale dei contagi accertati da inizio pandemia era 351.386. È dunque importantissimo riaprire, ma bisogna farlo gestendo bene le problematiche connesse, ad iniziare dai trasporti.

Con una serrata totale a novembre l’Italia sarebbe in uno scenario diverso?
È facile rispondere di sì, anche senza controprova. È un dato di fatto che un lockdown radicale, come quello tra marzo e maggio, ha funzionato. Peccato che durante quel periodo la partecipazione popolare fosse palpabile e c’era un grande supporto verso le strutture sanitarie. Invece nelle scorse settimane una parte, seppur minoritaria, della popolazione ha dato segnali di insofferenza. A questo proposito, tutti, parlo in primis di chi ha delle responsabilità, abbiamo mancato nell’essere capaci di sviluppare una vera alleanza con i giovani.

Cosa intende?
Con loro in modo particolare non paga essere solo prescrittivi. C’è chi pensa di trattare gli anziani come vuoti a perdere, salvo ritrattare, e c’è chi dà dei giovani un’immagine di incoscienti e sciagurati. Una fotografia sbagliata, distorta e oltretutto controproducente. Bisognerebbe invece renderli partecipi di una cultura di prevenzione.

Anche nell’ottica della campagna di vaccinazione?
Dovremmo innanzitutto smetterla di discutere dell’obbligo o meno. Investiamo piuttosto in informazione evitando un muro contro muro tra posizioni che sono nocive alla causa. Bisognerebbe persuadere e spiegare in maniera trasparente, altrimenti finiremo in difficoltà anche in questo caso. Oltretutto sul vaccino necessitiamo di una partecipazione molto vasta per ottenere un risultato. L’alternativa è avere una parte della popolazione protetta, un’altra riluttante alla vaccinazione e il virus che continua a sottoporci a costi economici e organizzativi che potremmo evitare con una campagna fatta davvero bene.

Un’eventuale terza ondata inizierà con circa 10mila casi al giorno e 20mila ospedalizzati. La seconda è partita da alcune centinaia di contagi e pochi ricoverati. È una differenza importante?
In questi giorni ci stiamo drammaticamente interrogando su quali e quanti reparti possiamo permetterci di riportare alla loro destinazione usuale, visto la flessione dei ricoveri. Ci divideremo tra ‘aperturisti’ e cauti, io temo di dovermi schierare, numeri alla mano, tra i cauti. Questo mi dà una grandissima preoccupazione, perché per più tempo i reparti sono convertiti per curare pazienti Covid, meno riusciamo ad assistere validamente gli altri malati con conseguenze che sono probabilmente state già pesanti e lo saranno ancora. I quasi 700mila decessi nel 2020 di cui ha parlato il presidente dell’Istat sono un dato sconcertante. In quel numero drammatico abbiamo i morti per Covid, i decessi per Covid non registrati e i morti per cause che, essendoci il Covid, non siamo riusciti a curare. Avremo una piena contezza del fenomeno tra qualche tempo. Intanto è triste dover dibattere di queste cose.

In che senso?
Negli scorsi giorni si è tenuto il congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, di cui sono stato presidente nel biennio 2018-2019. Ho fatto una dichiarazione riferendomi a un dato oggettivo e storico sulle infezioni da batteri multiresistenti, che è già una delle primarie cause di morte del nostro Paese e rischia di superare i tumori da qui al 2050. C’è stato chi mi ha dato del terrorista. Eppure ho manifestato una preoccupazione, in un momento in cui si ragiona di come ripensare l’organizzazione della sanità, su un aspetto nel quale siamo già maglia nera d’Europa. Un fatto notorio, un problema stra-emerso. Siamo arrivati al punto in cui diventa oggetto di polemica e di politica anche questo. Allora la situazione è davvero grave.

Twitter: @marcoprocs e @andtundo