“Negli ultimi sei mesi avete mostrato al mondo cosa vuol dire davvero non arrendersi. Avete difeso i vostri diritti e non rinunciate a lottare – nonostante il dolore, la sofferenza e la paura. Come ha detto Nelson Mandela – il coraggio non è l’assenza di paura, ma il trionfo su di essa”. David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, ha consegnato con queste parole il premio Sakharov per la Libertà di pensiero all’opposizione bielorussa, che da agosto scende in piazza contro il regime di Aleksandr Lukashenko. Un riconoscimento assegnato ogni anno a dissidenti e membri di minoranze perseguitati nel mondo.

Da mesi, senza mollare, migliaia di persone protestano a Minsk e in molte altre città del Paese, contestando l’esito delle ultime elezioni e chiedendo le dimissioni del presidente, che da parte sua ha risposto con arresti e repressione. Il Consiglio di coordinamento bielorusso ha una cabina di regia a trazione femminile per coordinare le manifestazioni, aumentare la pressione internazionale sul governo e progettare il futuro. Svetlana Tikhanovskaya (nella foto al centro), Veronika Tsepkalo (a sinistra) e Maria Kolesnikova (a destra) sono i volti di un movimento eterogeneo nella composizione ma unito nei suoi obiettivi: caduta del regime, convocazione di elezioni legittime, approvazione di una nuova costituzione.

Kolesnikova si trova attualmente in carcere in Bielorussia, accusata di “minacciare la sicurezza nazionale”, mentre Tikhanovskaya e Tsepkalo, mogli rispettivamente di un membro dell’opposizione incarcerato e di uno fuggito all’estero, si sono rifugiate in Lituania per continuare la lotta dall’estero e sollecitare appoggio internazionale. Una missione, quest’ultima, in parte compiuta: l’Unione Europea non ha riconosciuto l’auto-proclamata vittoria elettorale di Lukashenko e imposto una serie di sanzioni economiche allo stesso presidente e a 58 figure a lui vicine. Al fatto.it Tsepkalo racconta la battaglia per rovesciare il regime.

Perché ha deciso di guidare l’opposizione?
Prima di quest’anno né io né Svetlana avevamo mai avuto esperienze politiche. Non siamo noi che abbiamo scelto il nostro destino, è stato lui a scegliere noi. A maggio suo marito Sergei Tikhanovsky, candidato alla presidenza bielorussa, è stato arrestato. A luglio al mio, Valery Tsepkalo, è stato impedito di candidarsi: è finito sotto indagine e ha lasciato il Paese. Abbiamo preso il posto dei nostri uomini e proseguito la loro missione.

E ora tre donne sono leader di un movimento democratico che vuole chiudere un’era autoritaria durata 26 anni.
Queste proteste costituiscono il momento di maggior partecipazione femminile alla vita politica della Bielorussia. Abbiamo lasciato un Paese dove il presidente non aveva rispetto per le donne: diceva che la Costituzione non è per noi, che dovremmo stare a casa, cucinare e occuparci della famiglia. Durante la campagna elettorale siamo state apostrofate con diversi soprannomi, come scrofe o ratti. Lukashenko ci ha sempre sottovalutate, ma alle donne bielorusse non manca niente, né il talento, né l’istruzione né la personalità. Io e Svetlana abbiamo solo dato l’esempio.

Come è cambiato nel tempo il sostegno all’opposizione?
All’inizio ai comizi di mio marito venivano in pochi, estremamente spaventati. Nessuno pensava si potesse cambiare qualcosa in un regime al potere da 26 anni. Chi chiedevano: perché lo fate, tanto perderete. Lukashenko trufferà queste elezioni come ha già fatto in passato.

E invece la protesta ha fatto breccia.
Il modo di contestare il governo è cambiato: invece di grandi dimostrazioni di massa nelle strade principali delle città, se ne organizzano tante più piccole, nei quartieri. Le forze speciali del regime non possono essere dappertutto. Molti manifestanti pacifici, infatti, continuano a essere arrestati e le condizioni nelle carceri non sono accettabili.

Come sostenete chi protesta ora che siete all’estero?
Da qui cerchiamo di aiutare il nostro popolo: ho creato la Belarus Women Foundation per supportare le donne in prigione e raccolto storie di connazionali violentate, torturate, che vivono in sette o otto nella stessa cella, senza riscaldamento né acqua calda.

Cosa vi aspettate dall’Unione Europea?
Bruxelles deve ampliare la lista delle sanzioni: bisogna includere chi ha gestito queste elezioni fraudolente e chi è coinvolto nella violazione dei diritti umani. Ma anche colpire chi gestisce le aziende statali, cioè persone vicine al regime, senza affondare la nostra economia, altrimenti Lukashenko accuserà l’opposizione di essere responsabile della povertà dilagante. Chiediamo anche libertà di movimento verso i Paesi europei. Lukashenko ha chiuso i confini via terra, ma quelli aerei restano aperti: a chi dalla Bielorussia vuole fuggire all’estero, però, serve ancora oggi un visto. Ogni aiuto finanziario è benvenuto, sia ora, per supportare i bielorussi in difficoltà, sia dopo la caduta del regime, quando avremo bisogno delle aziende europee per la ricostruzione.

Come immagina il futuro della Bielorussia?
La rivoluzione c’è già stata, è nella testa delle persone. Per Lukashenko la strada è segnata: deve dimettersi. Più a lungo rimane al potere, peggio sarà per lui, visto che non è riconosciuto come presidente legittimo dall’Europa e da molti leader mondiali. Del resto, per la Bielorussia non c’è alcuna possibilità di tornare indietro: se ci arrendiamo ora, lui trasformerà il Paese in un campo di concentramento. Sappiamo che dobbiamo continuare la lotta: per il nostro futuro, per noi stessi e per i nostri figli.

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