Nel mondo anglosassone esiste un acronimo, SLAPP, che sta per Strategic Lawsuit Against Public Participation. Ovvero cause strategiche contro la pubblica partecipazione. Si tratta di cause civili che, seppur spesso basate su accuse infondate, hanno come obiettivo quello di disincentivare la protesta pubblica, colpendo le tasche delle parti chiamate in causa. Cioè uno stratagemma che, creando un precedente molto grave, potrebbe soffocare sul nascere critiche e proteste.
Noi di Greenpeace, al pari di tante altre organizzazioni e di tanti coraggiosi cittadini e cittadine che, in ogni angolo del Pianeta, lottano ogni giorno per la tutela della nostra casa comune, conosciamo molto bene questo genere di tattiche utilizzate da alcune grandi multinazionali. Che invece hanno come obiettivo principale quello di continuare a sfruttarlo questo Pianeta, costi quel che costi.
E proprio perché abbiamo ben presenti questi meccanismi di reazione nei confronti della critica, del dissenso, a volte persino della pura e semplice verità, non possiamo non esprimere la nostra totale solidarietà al Fatto Quotidiano, in questi giorni citato in tribunale da Eni per presunta diffamazione, per 29 articoli indicati come denigratori e diffamatori. Con una richiesta danni di 350 mila euro, cui si aggiungono una sanzione pecuniaria per il direttore del giornale, la “restituzione dell’illecito arricchimento” che il quotidiano avrebbe conseguito e la richiesta di rimuovere dal web tutti gli articoli del Fatto su Eni.
La libertà di pensiero e di stampa, il dovere di cronaca e il coraggio di raccontare vicende che spesso nessun altro affronta, sono principi sacrosanti di una democrazia sana. Troppo spesso invece si cerca, anche con le querele, di zittire il dissenso attraverso il timore di sanzioni o ingenti richieste di risarcimento. Un atteggiamento che Greenpeace ritiene ancor più inaccettabile se consideriamo che il 30% di Eni appartiene allo Stato.
Quello stesso Stato che dovrebbe difendere la libertà di espressione prevista dalla Costituzione e (aggiungiamo noi) anche la salute del Pianeta. Ma che, invece, continua ad avallare i piani industriali dell’azienda, sebbene questi non faranno che aggravare l’emergenza climatica. Nonostante sia uno dei maggiori inquinatori al mondo in termini di emissioni di gas serra, Eni utilizza le sue martellanti comunicazioni – che si tratti di spot a pagamento o di dichiarazioni fatte sui media – per continuare a dire bugie e cercare di promuovere i propri piani come “green”. Ma la verità è un’altra: l’azienda vuole continuare con il suo solito business a base di gas fossile e petrolio, e per farlo propone false soluzioni per la lotta alla crisi climatica in corso.
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— Il Fatto Quotidiano (@fattoquotidiano) December 9, 2020
Parliamo ad esempio del CCS, la cattura e lo stoccaggio di CO2, processo che come descrive Enea consiste nell’estrarre “biossido di carbonio (più noto come anidride carbonica o CO2) dagli scarichi prodotti da impianti di combustione; renderlo fluido per consentirne il trasporto verso un deposito, e – se non utilizzato a fini produttivi – provvedere al suo stoccaggio, cioè conservarlo, avendo cura che non si verifichino dispersioni in atmosfera”.
In parole povere, anziché puntare su una seria riduzione di emissioni grazie a una svolta che punti davvero sulle rinnovabili, Eni vorrebbe nascondere la CO2 sotto il mare al largo di Ravenna. E per questo sta chiedendo ingenti fondi pubblici, anche nell’ambito del Recovery Plan. Peccato il CCS sia costoso, funzionale solo a facilitare ulteriore estrazione di gas fossile e inutile – se non addirittura dannoso – per la lotta all’emergenza climatica in corso. Come confermato infatti da uno studio recente, “anche nelle migliori stime teoriche il CCS è in qualche modo un produttore netto di CO2. (Infatti, il CCS non è normalmente considerato una ‘tecnologia a emissioni negative’)”.
Pochi giorni fa, Gad Lerner scriveva che non è certo un caso se sono state per prime le realtà ambientaliste – come Greenpeace, Fridays for future, Re:Common, Extinction Rebellion – a comprendere la gravità della causa civile intentata da Eni al Fatto. Non è un caso per i motivi citati in precedenza, perché ci imbattiamo spesso in queste reazioni scomposte che però, anziché farci desistere, ci danno ancora maggior forza per continuare a lottare per il bene delle persone e del Pianeta. Per quello che riteniamo necessario, per quello in cui crediamo. Così come siamo convinte e convinti che continueranno a fare, senza alcuna esitazione, giornaliste e giornalisti del Fatto Quotidiano.