La prima cosa da sapere quando si parla di Willie Peyote è che le etichette gli vanno strette: è un rapper sì, ma anche cantautore (“anche se fa subito Festa dell’Unità”, dice lui), coltiva un’insospettabile anima rock e da ragazzino suonava il basso in una band punk. Da Torino con furore, Guglielmo Bruno – questo il suo vero nome – ha 35 anni, si definisce orgogliosamente sabaudo e nichilista e la sua vita è cambiata per sempre nel novembre del 2014: a metà mese timbrò per l’ultima volta il cartellino e si licenziò dal call center in cui lavorava per partecipare a un concorso per songwriter, Genova x Voi. Una decisione lungimirante, visto che quel contest l’ha poi ha vinto.
COSA VUOL DIRE IL SUO NOME D’ARTE
La domanda che gli fanno più spesso nelle interviste? Inevitabilmente quella sul suo nome d’arte. La risposta? Sempre la stessa. Willie è il diminutivo di William, la traduzione inglese del suo nome, Guglielmo, e il primo Willie che gli è venuto in mente per coniare il suo pseudonimo artistico è il Coyote dei cartoni della Looney Tunes. “Io mi sono limitato ad aggiungerci la droga (il peyote è una pianta dagli effetti allucinogeni n.d.r.)”, racconta.
DAL PRIMO DISCO AL PREMIO TENCO
Il suo primo album è del 2011 – Il manuale del giovane nichilista – e gli sono bastati pochi anni prima per imporsi sulla scena hip hop italiana, poi per ritagliarsi il suo posto al sole collezionando dischi di successo, boom di streaming su Spotify con progetti discografici coccolati della critica, sold out spettacolari come quello all’Alcatraz di Milano e quello di tutte le ultime tappe del suo tour prima dello stop imposto dal Covid. Nel suo curriculum ci sono anche le partecipazioni al Premio Tenco e all’antologia celebrativa di Fabrizio De André, la collaborazione all’ultimo disco dei Subsonica – suoi concittadini – e poi ancora l’ospitata alla rassegna Milano per Gaber, del quale ha spiegato di condividere l’approccio non giudicante.
DALLA GAVETTA AL FESTIVAL DI SANREMO
Figlio di musicisti, laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla rivolta di Los Angeles del 1992 come conseguenza del pestaggio di Rodney King da parte della polizia, nelle sue canzoni c’è dentro di tutto, dall’impegno sociale ai diritti civili e la religione (una parte della sua famiglia è seguace dei Testimoni di Geova, lui invece ha scelto di non farsi battezzare ed è ateo). Ma sa dosare bene l’ironia tagliente per raccontare certi tic degli italiani. Per lui il Festival di Sanremo rischia di essere una «prima volta» indimenticabile: quella con il pubblico pop di Rai1, che conoscerà il suo stile sempre in bilico tra il cantautorato raffinato e il rap più potente (perché sì, lui comunque si sente un rapper: «Un po’ mi offendo quando mi dicono che non lo sono: curo tantissimo la tecnica, l’originalità, il flow, e i miei colleghi rapper sanno perfettamente che sono uno di loro»).
LE POLEMICHE A DISTANZA CON SALVINI E BUFFON
Willie Peyote non è uno che si sottrae, dice la sua e la dice chiara. Come quando, ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, cantò Io non sono razzista ma… provocando l’indignazione della destra italiana. L’antifascismo è la sua linea di confine. Dice che l’impegno nella musica non paga, ma se c’è da esporsi lo fa. Così in alcune interviste ha attaccato in maniera frontale tra gli altri Matteo Salvini («Secondo me diamo troppo peso a quello che dice»), Gigi Buffon («Scende in politica? Non voglio un altro ministro di estrema destra») e la Dark Polo Gang («quando i gioielli li compri con i soldi di papà, vedi la Dark Polo Gang, vuol dire che non conti nulla»). «Mi sento responsabile di ciò che scrivo perché ci penso, peso ogni parola che devo usare: posso fare canzoni leggere, ma non faccio mai canzoni alla leggera, e cerco di portare rispetto al pubblico e alle persone che nomino nei pezzi», aggiunge.
LA PASSIONE PER IL TORO E LA STIMA PER MANGO
Tifa Toro (su Twitter è registrato in Curva Maratona e nelle sue canzoni ci sono spesso riferimenti calcistici), non si sa nulla della sua vita sentimentale mentre il suo pantheon musicale è ben noto e va da Fred Buscaglione a Damon Albarn, ma stima molto anche Salmo, Ghemon (anche lui possibile Big in gara all’Ariston) e Fabri Fibra. Nel suo repertorio c’è poi un brano intitolato Mango, che è una celebrazione del cantante scomparso nel 2014. «La morte di Mango? È uno dei momenti più toccanti che io ricordi. Un artista che si sente male sul palco, chiede scusa al pubblico per il disturbo prima di morire è assolutamente incredibile», ha raccontato in un’intervista. «Certo, lo stile di Mango era lontano dal mio, ma io volevo celebrare la persona, l’artista che lo è fino all’ultimo minuto, con un incredibile rispetto per il suo pubblico».