Diritti

Il rapporto Amnesty sui “diritti violati” nelle residenze per anziani. “Chiedevamo test in caso di febbre ma non ci rispondevano mai”

La ricerca dell'organizzazione internazionale sulla gestione della pandemia nelle Rsa evidenzia violazioni del diritto alla vita, alla salute, al non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradati, alla non discriminazione, al rispetto della vita privata e familiare. Complice l'assenza di regole chiare e di controllori. Il caso Lombardia: "Talvolta c'è stato un rifiuto generalizzato degli ultra 75enni in ospedale per effetto di una direttiva regionale"

“Abbandonati”. Si riassume efficacemente in un’unica parola, il titolo, l’esito dell’indagine di Amnesty International sulle politiche regionali e governative per le Residenze sanitarie per anziani (Rsa) durante la pandemia. L’intervento dell’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani sarebbe di per sé significativo su quanto accaduto nelle case che ospitano la popolazione più fragile quando è arrivato il Coronavirus. E infatti Amnesty nella sua relazione su Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mette in fila fatti in parte noti, con testimonianze inedite, inquadrandoli nell’ambito del rispetto dei diritti primari delle persone.

La conclusione è che le scelte effettuate nella gestione della pandemia Covid per le strutture sanitarie e socio assistenziali per anziani hanno comportato la “violazione di diritti umani in cinque campi: il diritto alla vita, alla salute, al non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradati, alla non discriminazione, al rispetto della vita privata e familiare”. Il “verdetto” è l’esito di una ricerca effettuata da Donatella Rovera, Debora Del Pistoia e Martina Chichi che è stata condotta tra luglio e dicembre 2020, sei mesi durante i quali Amnesty ha realizzato un totale di 87 interviste “approfondite”.

Nello specifico: 28 familiari di persone anziane decedute o residenti in strutture sociosanitarie e socioassistenziali, 26 persone tra dirigenti e operatori sanitari dello stesso tipo di strutture, sei membri di associazioni professionali di rappresentanza di queste categorie, sei membri di associazioni di familiari e operatori sanitari che difendono i diritti delle persone anziane che vivono in Rsa, nove delegati sindacali, un rappresentante dell’ordine dei medici, quattro avvocati, sette giornalisti e analisti esperti del settore sociosanitario.

Tutte le testimonianze riguardano le strutture sociosanitarie e socioassistenziali residenziali di varia natura, pubbliche e private, profit e non profit, nelle tre regioni analizzate. Quello che emerge è che “il governo italiano e le autorità regionali non sono riusciti a intraprendere misure tempestive per tutelare la vita e i diritti delle persone anziane” nelle Rsa e, di fatto, “hanno adottato politiche e consentito pratiche che hanno messo a rischio la vita e la sicurezza sia degli ospiti che degli operatori sanitari. Tali decisioni e politiche hanno prodotto o contributo a determinare violazioni dei diritti umani degli ospiti anziani residenti, in particolare del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione. Hanno anche avuto un impatto sui diritti alla vita privata e familiare degli ospiti delle strutture ed è possibile che, in certi casi, ne abbiano violato il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti”, nota Amnesty.

L’organizzazione ripercorre i fatti da febbraio a oggi, sottolineando come gli ospiti delle Rsa che sono sopravvissuti al Covid si trovino ancora in uno stato di privazione dei propri diritti nel momento in cui poco o nulla viene fatto per migliorare la loro condizione di privazione di libertà e socialità che ne peggiora lo stato di salute. E invoca un’indagine seria e indipendente che ponga responsabilità e soluzioni concrete.

Intanto direttore generale di Amnesty Italia, Gianni Rufini, accusa l’Italia, come altri Paesi, di “scelte profondamente sbagliate da un punto di vista etico. Ci si è rassegnati, in qualche modo, al fatto che un p? di persone dovessero morire. Quando si sono dovute fare delle scelte si sono fatte solo guardando la vita in termini economici. Spero che lo Stato italiano impari da quanto successo e che si faccia una riflessione profonda che plasmi le politiche del Governo in materia di sanità”.

Prima di tutto i numeri – I primi casi diagnosticati di Covid-19 e le prime morti in Italia si sono verificati in Lombardia tra il 19 e il 21 febbraio, “seguiti da una fulminea spirale di contagi e di decessi nelle settimane successive sia nelle comunità sia tra le persone anziane residenti in strutture sociosanitarie e socioassistenziali”. Nelle sole residenze dell’area di Milano a marzo si è verificato un incremento del 270% dei decessi rispetto agli anni precedenti. Nella bergamasca la differenza è stata addirittura del 702%. Sulle 16.262 persone decedute con Covid-19 in Lombardia alla fine di maggio, 3.139 (il 19%) sono morte in strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane.

“L’impatto della pandemia sugli ospiti delle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali per persone anziane varia notevolmente tra le diverse aree del Paese, in parte in conseguenza della situazione epidemiologica generale relativa al Covid-19 nelle singole aree, in parte in base alla risposta delle autorità di fronte all’emergenza a livello locale: in Italia le competenze inerenti all’assistenza sanitaria e sociosanitaria sono demandate alle regioni, le quali dispongono di un notevole grado di autonomia nell’interpretazione e nell’attuazione delle politiche del governo centrale“, sottolineano i ricercatori rilevando la totale assenza o intempestività di misure di protezione fondamentali come restrizioni alle visite, procedure di controllo delle infezioni, esecuzione di tamponi su ospiti e personale.

Un esempio su tutti: per decisione del ministero della Salute, le visite ai pazienti ricoverati in ospedale sono state vietate dal 22 febbraio a livello nazionale, mentre le restrizioni alle visite nelle rsa sono state lasciate alla discrezionalità delle autorità regionali, che ne hanno permesso la prosecuzione in qualche forma fino a metà marzo. E durante questo periodo il virus si è fatto strada.

Porte aperte ai pazienti infetti “senza ricevere indicazioni”- Come se non bastasse, “nello stesso periodo in cui ai visitatori si continuava a consentire l’accesso alle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane (e alcune delle più grandi accoglievano centinaia di visitatori al giorno), nelle stesse strutture arrivavano anche pazienti infetti dimessi dagli ospedali”. Alcuni non erano stati sottoposti a tampone, “ma per altri era stata accertata in ospedale la positività al covid”.

L’8 marzo, al culmine del contagio, la Regione Lombardia ha assunto la decisione di dimettere i pazienti ospedalieri inviandoli verso le Rsa “compresi pazienti positivi al COVID-19, nell’intento di liberare posti letto ospedalieri”. La direttrice di una Rsa di Bergamo ha raccontato ad Amnesty International cos’è successo: “Il 29 [febbraio], alle 10 del mattino, arriva un nuovo paziente dall’ospedale. Alle 17 l’ospedale ci invia via fax l’esito del tampone nasofaringeo (COVID-19) a cui è stato sottoposto in ospedale: è positivo. È il nostro primo caso ufficiale. Mettiamo in atto procedure ordinarie per il caso di epidemia, senza ricevere alcuna indicazione, pur avendo informato della situazione l’Ats (l’azienda sanitaria locale). Nella prima settimana di marzo, i casi di febbre iniziano a moltiplicarsi nella Rsa, a dimostrazione del fatto che il COVID-19 circolava già da un po’ all’interno. Dalle autorità regionali riceviamo soltanto a fine marzo le prime informazioni che spiegano come operare per evitare la propagazione del virus”.

Un operatore sanitario di Milano ribadisce: “Qui il virus è scoppiato il 13 marzo, dopo l’arrivo di pazienti dal pronto soccorso. Il 13 marzo abbiamo ricevuto 17 pazienti. Ci hanno detto e ripetuto che non erano pazienti COVID, ma come potevano saperlo se non erano mai stati sottoposti al test? A due giorni dai nuovi arrivi, si sono ammalati il medico, il caposala e due altri operatori di assistenza del mio reparto…
Continuavano a dirci che non erano pazienti COVID e che avevamo introdotto noi il virus dall’esterno. Il personale non era stato informato della possibile positività di questi pazienti dimessi dagli ospedali. Inoltre, molti infermieri venivano costantemente spostati nei vari reparti della Rsa e non era possibile tenere sotto controllo nulla”.

Lo stesso problema si è replicato in Emilia-Romagna il 20 marzo, quando le autorità regionali hanno indicato alle autorità sanitarie locali e alle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane di “provvedere a organizzarsi adeguatamente per affrontare dimissioni ospedaliere di persone colpite da coronavirus”. La direttiva regionale prescrive la presenza di procedure per l’“isolamento precauzionale, per evitare eventuali rischi di contagio”, senza però fornire indicazioni specifiche in relazione alle misure da adottare a livello operativo in quelle strutture che, ad esempio, non erano materialmente in grado di garantire l’isolamento.

I dirigenti delle Rsa, riferisce ancora Amnesty, hanno raccontato di “essersi sentiti sotto pressione nell’accettare i pazienti dimessi dall’ospedale; in alcuni casi perché era l’unico modo per garantire un’entrata economica a fronte di posti letto altrimenti vuoti; in altri casi per timore di compromettere le relazioni con le autorità regionali, che costituiscono una fonte essenziale di finanziamento per i presidi residenziali sociosanitari”.

“Combattevamo il fuoco senza estintori e con le mani legate” – A condire il tutto, una carenza pressoché assoluta di dispositivi di protezione e di tamponi che si è placata solo al termine della prima ondata. “Tranne alcune eccezioni, poi, le Rsa non disponevano di sistemi e/o infrastrutture necessari per isolare in modo efficace gli ospiti contagiati o potenzialmente infetti e facevano fronte a una grave carenza di personale, poiché sempre più operatori si stavano ammalando”, sottolinea il rapporto. Ne è conseguita una carenza di personale che ha “ulteriormente indebolito la capacità di intraprendere le misure assolutamente necessarie per prevenire e tenere sotto controllo l’infezione e per prendersi cura in modo adeguato di un crescente numero di ospiti ammalati”.

“Combattevamo il fuoco senza estintori e con le mani legate dietro la schiena”, ha commentato il responsabile di una struttura. Mentre la direttrice sanitaria di una Rsa di Milano ricorda di aver “iniziato immediatamente a perseguitare [le autorità sanitarie locali] per ottenere i tamponi per tutti, anche per gli asintomatici. Il 10 aprile abbiamo ricevuto i primi tamponi per il personale, dopo aver inviato richieste a non finire. Chiedevamo tamponi per ogni caso di febbre ma (le autorità sanitarie locali) non rispondevano mai. Il direttore generale ha ottenuto cinque tamponi intorno a Pasqua”.

Del resto il 17 marzo il ministero della Salute indicava in un parere che le mascherine FFp2/FFp3 erano necessarie solo per il personale impegnato in procedure con pazienti Covid che generassero aerosol. La raccomandazione è stata modificata soltanto il 29 marzo. “Oltre ad arrivare in ritardo, sembra che (secondo le testimonianze di operatori sanitari) tale raccomandazione sia stata ampiamente ignorata, specialmente a causa della scarsa disponibilità di mascherine di questo tipo – sottolinea il rapporto -. I dirigenti delle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane hanno riferito ad Amnesty International di non aver potuto ottenere per varie settimane alcun Dpi dalle autorità sanitarie locali e che quel po’ di forniture che eventualmente riuscivano ad acquistare autonomamente sul mercato veniva requisito dalle autorità doganali e reindirizzato agli ospedali. Il personale di varie strutture ha raccontato ad Amnesty International di aver ricevuto Dpi solo nella prima metà di aprile, ormai dopo la morte di migliaia di ospiti”.

“La priorità era un’altra” – “Analogamente alla questione dei tamponi, la carenza di Dpi è risultata una sfida che ha riguardato ampiamente tutta l’Europa e non solo, sia per gli ospedali sia per le strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane. Le autorità italiane hanno chiaramente dato la priorità agli ospedali rispetto ai presidi residenziali sociosanitari per persone anziane. In assenza di tutti i dettagli rilevanti, non è possibile accertare in che misura le autorità italiane avrebbero potuto garantire maggiori approvvigionamenti, ma le informazioni disponibili indicano che si sarebbe potuto e dovuto profondere un impegno maggiore sia per assicurare una maggiore quantità di forniture che per gestire meglio l’allocazione di quelle disponibili nel paese, in modo da garantire scorte per le strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane al culmine della pandemia, essendo chiaro che i loro residenti fossero il segmento più a rischio di contagio e mortalità”.

Non solo. “Sono emerse denunce diffuse secondo cui non è stato garantito un accesso paritario alle cure ospedaliere” agli ospiti delle Rsa. In Lombardia, le autorità regionali hanno addirittura adottato una direttiva specifica di cui ilfattoquotidiano.it ha dato conto a suo tempo e che indicava come opportuno che i residenti delle Rsa contagiati rimanessero in struttura “limitandone di fatto l’accesso all’ospedale”. Secondo Amnesty “è difficile stabilire in che misura gli ospiti di strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane che avrebbero potuto beneficiare di cure ospedaliere si siano visti negare l’accesso all’ospedale in conseguenza di questa direttiva, considerato che in quel momento gli ospedali della regione erano estremamente oberati e talvolta non erano in grado di fornire le cure necessarie a tutti coloro che ne avevano bisogno”. Tuttavia, dalle testimonianze raccolte da Amnesty International tra il personale e i parenti di ospiti delle Rsa “emerge che la direttiva si sia tradotta talvolta in un rifiuto generalizzato nei confronti di ospiti ultrasettantacinquenni di Rsa, invece di essere una decisione basata su valutazioni cliniche individuali dei bisogni di specifici pazienti”.

A rendere meglio l’idea è la testimonianza della figlia di una residente di una Rsa di Milano sopravvissuta al Covid: “Dopo forti insistenze, l’8 maggio mia madre è stata trasferita in ospedale in fin di vita; nella Rsa mi è stato detto ripetutamente che non c’era nulla da fare. Tuttavia, secondo il medico del pronto soccorso in ospedale, il problema era la setticemia sanguigna, l’insufficienza renale dovuta a disidratazione e malnutrizione. Nel reparto malattie infettive dell’ospedale hanno fatti miracoli e lei ce l’ha fatta. Ora però si è rinchiusa in sé stessa, ha 75 anni ma ha perso 20 anni di vita. Sono morte la metà delle persone nel reparto in cui si trovava mia madre”.

Per i sopravvissuti depressione, inappetenza e peggioramento generale – Durante l’estate i valori del contagio sono calati, “ma l’impatto brutale ha continuato a sentirsi”. Con la ripresa delle visite esterne in forme diverse, “si è rivelato con maggiore evidenza l’impressionante effetto della pandemia sulla salute e sul benessere delle persone anziane sopravvissute nelle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane – sottolineano i ricercatori -. Per alcune persone anziane, le conseguenze sono tragiche: indebolimento delle funzioni motorie e cognitive, perdita dell’appetito, depressione e una generale perdita della voglia e del desiderio di vivere, con un impatto particolarmente significativo per i soggetti affetti da demenze o Alzheimer”.

La figlia di un’ospite di una Rsa in Lombardia ha detto ad Amnesty International: “La prima volta è stato uno shock rivederla, non parlava e non reagiva, non credeva che fossi sua figlia. Dopo 20 minuti, si è resa conto che ero io e mi ha chiesto: ‘come stai?’ Quando la vediamo di persona, spesso tiene le mani sul viso, come presa da una terribile angoscia, continuamente”.

“Attenuare le restrizioni sproporzionate alla libertà di movimento”- “Mentre l’Italia si ritrova ancora una volta di fronte a un livello elevato di contagi, le visite nelle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane sono state nuovamente drasticamente ridotte o sospese del tutto“, nota infine la ricerca. Secondo la quale è “assolutamente indispensabile che non si risparmino gli sforzi per permettere ai residenti di ricevere visite appropriate da parte dei loro cari e di interagire con il mondo esterno“. Quindi si suggerisce “un sostanziale incremento dell’esecuzione di tamponi sia sugli ospiti delle strutture residenziali, che sui visitatori”. Il che “consentirebbe di attenuare restrizioni sproporzionate imposte alla libertà di movimento e di riunione degli ospiti delle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane”, senza trascurare le misure di prevenzione dal virus.

Infine una valutazione complessiva che pesa come un macigno. “L’insieme delle sfide strutturali radicate sofferte dal settore delle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane (la frattura tra assistenza sanitaria e sociosanitaria, le carenze croniche di organico e un numero crescente di problematiche derivanti dalla privatizzazione e dai tagli ai finanziamenti negli ultimi anni, insieme alla molteplicità di sistemi nel meccanismo di vigilanza generale poco chiaro per garantire la coerenza e l’implementazione degli standard) esulano dallo scopo di questo rapporto, ma hanno contribuito tutte ad amplificare l’impatto della pandemia da COVID-19 sui diritti umani dei residenti delle strutture sociosanitarie e socioassistenziali per persone anziane”, conclude Amnesty.

Di chi è la colpa se manca chi deve dare le regole e controllare? – Tuttavia la nebbia sulle regole e i controllori impedisce di fare chiarezza sulle responsabilità. “L’assenza di un sistema che definisca con chiarezza quali autorità abbiano il compito in ultima istanza di vigilare sulla situazione nelle strutture residenziali sociosanitarie per persone anziane – è l’ultima considerazione – nonché di garantire che siano protetti e sostenuti i diritti delle persone anziane che vi si trovano, ostacola l’identificazione delle responsabilità e il perseguimento di azioni correttive quando le cose vanno male su così ampia scala, come è indubbiamente accaduto in questo frangente”.

In pratica secondo Amnesty se non risolve questo punto, le inchieste giudiziarie in corso che pure sono in molti casi rilevanti, non potranno portare a una soluzione delle “distorsioni” e degli “schemi di abusi che hanno caratterizzato la risposta alla pandemia nel settore”. A tal fine, secondo l’organizzazione dovrebbe essere condotta “un’inchiesta pubblica completamente indipendente e fondata su un approccio di diritti umani, che riconosca gli obblighi nazionali e internazionali dell’Italia nella promozione dei diritti umani di tutti” per analizzare i fatti e promuovere misure concrete di soluzione inclusi i meccanismi di vigilanza e di accertamento delle responsabilità.

Al contempo, Amnesty ritiene che le autorità debbano “lavorare in sinergia” con le Rsa e con la società civile “per fare in modo che le problematiche identificate in questo rapporto vengano risolte”. In particolare, le autorità oltre a perseguire il miglioramento degli standard di prevenzione e trasparenza, dovrebbero tra il resto rispettare e realizzare il diritto a “ottenere il più elevato standard di cura raggiungibile”; assicurare che le linee guida per le visite nelle Rsa “siano orientate al miglior interesse degli ospiti“; garantire un’adeguata rappresentanza e coinvolgimento delle persone anziane, degli ospiti delle Rsa e del settore “nei processi di pianificazione e decisionali correlati a questioni che incidono sui residenti delle strutture stesse, a tutti i livelli”.