A far crollare il ponte Morandi il 14 agosto del 2018 sono state la scarsa manutenzione e l’assenza di controlli. Lo scrivono i quattro periti incaricati di individuare le cause del disastro, nelle 476 pagine depositate alla gip Angela Maria Nutini. “Sono identificabili – si legge nell’atto firmato dagli ingegneri Giampaolo Rosati, Massimo Losa, Renzo Valentini e Stefano Tubaro – le carenze nei controlli e gli interventi di manutenzione che non sono stati eseguiti correttamente”. Si rafforza così la tesi dei pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, secondo cui il collasso del ponte è da imputare a negligenze di Autostrade per l’Italia – la società concessionaria – mentre le difese puntano sull’esistenza di difetti strutturali nell’esecuzione dell’opera.
La perizia rappresenta la tappa fondamentale del secondo incidente probatorio disposto durante le indagini, che deve far luce, appunto, sulle cause del cedimento. Il primo incidente probatorio, concluso ad agosto 2019, aveva evidenziato uno stato diffuso di corrosione dei cavi d’acciaio degli stralli, i tiranti che collegavano la piattaforma stradale alla sommità della pila 9, quella crollata.
A questo proposito, sottolineano i periti, l’esecuzione dell’intervento di retrofitting che avrebbe dovuto rinforzare gli stralli delle pile 9 e 10 – deliberato nel 2017 ma mai eseguito – “avrebbe elevato il crollo con elevata probabilità”. “È paradossale – si legge – rilevare che tanti dei difetti che hanno determinato l’esecuzione degli interventi dal 1982 al 1993”, cioè, secondo la prima perizia, le ultime manutenzioni efficaci, “siano stati riscontrati nuovamente dai Periti nell’ambito delle attività svolte nel primo incidente probatorio per la valutazione dello stato di conservazione e di manutenzione del viadotto”. E cioè “danni al calcestruzzo con distacchi per effetto della ossidazione delle armature, passaggi di umidità, difetti di esecuzione”, nonché “aggressione di natura fisico-chimica delle superfici esterne del calcestruzzo” e “fessurazioni o lesioni di solette, pareti e tiranti”.
Il documento ridimensiona anche un altro caposaldo della strategia difensiva di Autostrade: la teoria che da un camion, in transito in quei minuti sul Morandi, sia caduta una bobina (coil) di acciaio da 3,5 tonnellate capace di dare il via al cedimento della struttura. “Le analisi svolte – scrivono i periti – portano ad escludere con elevata probabilità l’ipotesi che il coil possa essere caduto dal tir mentre quest’ultimo transitava a cavallo del giunto tra la pila 9 e il tampone 10”. Inoltre, “la posizione a terra del semirimorchio e del coil sono pienamente compatibili con l’ipotesi che i due corpi siano precipitati entrambi insieme fino a giungere al suolo”.
Per quanto riguarda il “reperto 132C”, cioè la parte sommitale dello strallo di sud-est della pila 9 – quella che secondo la Procura sarebbe stata la prima a spezzarsi causando il crollo – le analisi “hanno confermato quel che si poteva visivamente osservare, e cioè una forte corrosione in corrispondenza delle zone di rottura con un grado peggiore per i trefoli dei cavi secondari rispetto ai primari”. Lo strallo, insomma, ha ceduto per la corrosione dei cavi che lo costituivano, non per altre cause. “La causa scatenante” del crollo del ponte, sintetizza la relazione rispondendo al primo dei quaranta quesiti posti dal giudice, “è il fenomeno di corrosione a cui è stata soggetta la parte sommitale del tirante Sud-lato Genova della pila 9; tale processo di corrosione è cominciato sin dai primi anni di vita del ponte ed è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo, determinando una inaccettabile riduzione dell’area della sezione resistente dei trefoli (i cavi d’acciaio, ndr) che costituivano l’anima dei tiranti, elementi essenziali per la stabilità dell’opera”.
“Le cause profonde dell’evento – proseguono i periti – possono individuarsi in tutte le fasi della vita del ponte, che iniziano con la concezione/progettazione dell’opera e terminano con il crollo Lungo questo periodo temporale, si collocano le cause, relative alle diverse fasi della vita dell’opera, che hanno contribuito al verificarsi del crollo. Esse sono identificabili nei momenti dei controlli e degli interventi manutentivi che, se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. La mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”.
Secondo gli ingegneri incaricati dal gip, quindi, non c’è stato caso fortuito o incidenza di fattori esterni: il Morandi era destinato a crollare per carenza di manutenzione. “Il punto di non ritorno, oltre il quale l’incidente si è sviluppato inevitabilmente, è da individuarsi nel momento in cui, per effetto della corrosione, si è innescato un fenomeno evolutivo che ha determinato un elevato tasso giornaliero di rottura dei fili, che avrebbe portato inevitabilmente al collasso della struttura anche per effetto dei soli carichi permanenti”, precisa la relazione. “Con riferimento allo stato di manutenzione – si legge ancora -, si deve rilevare che sulla Pila 9 in generale, l’ultimo intervento di manutenzione rilevato dai Periti, sotto il profilo strutturale, risale al 1993 e che, comunque, nella vita dell’opera, non sono stati eseguiti interventi di manutenzione che potessero arrestare il processo di degrado in atto”.
Si giunge così al quesito decisivo per la difesa di Aspi, quello in cui il gip chiede agli esperti “se vi siano fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possano avere concorso a determinare il crollo”. La risposta è lapidaria: “Non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possano avere concorso a determinare il crollo, come confermato anche dalle evidenze visive emerse dall’analisi del filmato Ferrometal”, il video della telecamera di sorveglianza di un’azienda ai piedi del viadotto, acquisito agli atti.