“La causa scatenante” del crollo del viadotto Morandi “è il fenomeno di corrosione a cui è stata soggetta la parte sommitale del tirante sud, lato Genova, della pila 9”. I controlli e la manutenzione, “se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento”. E “non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possano avere concorso a determinare il crollo”. Sta in queste tre frasi il cuore della monumentale perizia consegnata al giudice per le indagini di Genova Angela Nutini, in cui quattro ingegneri e accademici hanno ricostruito l’esatta dinamica dell’evento. Un documento che costituisce il cuore del secondo incidente probatorio, volto a far luce sulle ragioni del collasso – il primo, concluso l’anno scorso, ha fotografato le condizioni della struttura – e che avrà un ruolo fondamentale anche nel corso del dibattimento. Ma nelle 467 pagine a disposizione delle parti c’è molto di più: gli esperti criticano vari aspetti della gestione del ponte negli anni, complicando la posizione del concessionario – Autostrade per l’Italia – la cui strategia difensiva punta tutto sull’esistenza di difetti congeniti della struttura.
Il degrado “sottostimato” – Un esempio è la risposta al sotto-quesito 1.5, in cui il gip chiede di valutare l’efficacia delle ispezioni messe in campo da Autostrade, specificando se i controlli abbiano portato a interventi di messa in sicurezza adeguati. Le indagini eseguite dalla società, rispondono i periti, “non hanno consentito di pervenire ad un adeguato livello di conoscenza dell’effettivo stato di degrado dei cavi dei tiranti della pila 9”. In particolare, “le stime della corrosione eseguite nel 1993” sugli stralli delle pile 9 e 10, “che risultavano rispettivamente pari al 8,6% e al 20,54%, sono in palese contraddizione con quella riportata nel progetto di retrofitting”, cioè di rafforzamento, varato da Aspi nel 2017 (e mai realizzato). Quest’ultima stima “era generalmente pari al 10%-20%, indistintamente per le due pile”, il che “implicherebbe il completo arresto del progredire del fenomeno di corrosione in un quarto di secolo”: un’affermazione, concludono gli ingegneri, “chiaramente assurda e inaccettabile”.
Il monitoraggio carente – Altro tema su cui insiste la relazione è il monitoraggio tecnologico della sicurezza del ponte (sotto-quesito 1.4). Il sistema installato sul Morandi, si legge, “era di tipo statico, solo formalmente conforme alla normativa vigente”, perché non consentiva di valutare gli effetti nel tempo dei carichi dinamici, quale, su tutti, l’aumentato livello di traffico. Per questo un rapporto messo a punto dal Cesi (Centro elettrotecnico sperimentale italiano) tra il 2015 e il 2016 raccomandava “l’installazione di un sistema di monitoraggio dinamico permanente” a base di accelerometri e anemometri, indicazione “non considerata” dal concessionario. C’è poi una seconda consulenza commissionata da Autostrade nel 2017 e affidata al professor Carmelo Gentile del Politecnico di Milano, che ha avuto “il merito di evidenziare un comportamento anomalo proprio dello strallo della Pila 9 lato mare/Genova”, cioè quello spezzato – sempre secondo i periti – dando il via al crollo. Lo studio suggeriva “ulteriori approfondimenti di natura numerica e/o sperimentale”, ma di tali suggerimenti – conclude la perizia – “non si trova riscontro da parte del gestore, almeno nei documenti esaminati”.
L’allarme inascoltato – C’è spazio anche per una rivalutazione dell’opera dell’ingegner Riccardo Morandi, che progettò il viadotto nei primi anni Sessanta. “Il progettista – scrivono i quattro esperti – aveva posto, naturalmente in accordo con la tecnologia dell’epoca di progettazione/costruzione, particolare attenzione al rischio di corrosione dei cavi”. Ma dalla costruzione in poi, si legge, “è stata via via trascurata negli anni la serie di indicazioni” che lo stesso Morandi aveva fornito, “con particolare riferimento al degrado degli acciai da precompressione costituenti i cavi dei tiranti”. Raccomandazioni “particolarmente importanti e rilevanti, tenuto conto della straordinarietà dell’opera” e del fatto che gli elementi progettati, rispetto alle tecniche costruttive dell’epoca, erano per molti aspetti dei prototipi. Inoltre, “nelle prime verifiche, a breve distanza temporale dall’inaugurazione dell’opera, sia tecnici del gestore sia lo stesso progettista avevano evidenziato fino al 1985 un già diffuso stato di ammaloramento e proposto modifiche di intervento non sempre e non compiutamente accolte. Il gestore dell’opera avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l’opera stessa era stata effettivamente costruita, valutando la rispondenza tra i documenti progettuali e l’opera costruita, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell’ultimo tratto del tirante Lato Genova/Sud, in corrispondenza della sommità dell’antenna, consentendo quindi di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado ivi riscontrato”. Insomma: se pure un difetto di realizzazione c’era, con controlli attenti e interventi adeguati se ne sarebbero potuti tamponare i suoi effetti, scongiurando la tragedia.
Le prossime tappe – Cosa succede ora? Le difese e i consulenti dei 71 indagati – tecnici e manager di Aspi, della controllata per le manutenzioni Spea, di Anas e del ministero dei Trasporti – hanno oltre un mese di tempo per leggere le carte. L’inizio della discussione, infatti, è fissato al prossimo 1° febbraio, dopodiché le udienze “si terranno sino a esaurimento in tutti i giorni immediatamente successivi, compreso il sabato”, ha spiegato la gip Nutini. Le ipotesi di reato sono, a vario titolo, omicidio colposo plurimo, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti e infine – com’è emerso negli ultimi giorni – la più grave fattispecie di crollo doloso. “La perizia è un caposaldo dell’inchiesta. Questa è una prova, non una ipotesi della procura”, ha sottolineato il procuratore di Genova Francesco Cozzi. “Il crollo del ponte – ha aggiunto – non è un fatto venuto così, ma rivelatorio di un sistema complessivo”. La perizia, ha detto ancora Cozzi, è “un gran lavoro dei periti, lavoro che è conforme alle risultanze che venivano dalle nostre consulenze tecniche su materiale raccolto dalla Guardia di finanza e le altre forze dell’ordine”. Quindi ha concluso: “Ora si tratta di collegare le risultanze delle perizie con i singoli comportamenti umani”.
I parenti delle vittime – Alla discussione dell’incidente probatorio parteciperanno anche i parenti delle vittime che hanno intenzione di costituirsi parti civili: “È molto triste ma finalmente chiaro avere conferma che tutto poteva essere evitato”, ha detto Egle Possetti, portavoce del comitato dei familiari. “Ringraziamo i periti, la procura, gli inquirenti, il tribunale per il duro lavoro che hanno fatto e faranno per far emergere la verità, e auspichiamo che tutti coloro che fino ad ora hanno avuto dubbi sulla nostra battaglia, anche di civiltà, possano condividerla e appoggiarla”.