Se Massimo Cacciari rappresenta il meglio del pensiero politico nazionale siamo davvero mal presi. Se, invece, è soltanto il compendio ambulante di una categoria (i lavoratori intellettuali per professione) allora possiamo renderci conto del perché in Italia non sia possibile trovare chi raccolga l’invito a misurarsi con le sfide di un tempo impantanato nell’insipienza e nella ridondanza comunicativa, che trasforma la discussione pubblica in rumore: “nel XX secolo, i filosofi hanno cercato di cambiare il mondo. Nel XXI è ora che si mettano a interpretarlo in modo diverso”.
Ieri sera Andrea Scanzi e il virologo Massimo Galli avevano un bel tentare di ricondurre sul terreno della concretezza il filosofo errante (dagli Operaisti a Romano Prodi, passando per il Pci di Berlinguer) in piena gag della concitazione; interessato soltanto a “fare il fenomeno” elencando le criticità irrisolte dall’attuale governo. Dando l’impressione di aver vissuto gli ultimi decenni in Nepal, non da parlamentare romano tra il 1976 e il 1983, poi come sindaco veneziano dal 1993 al 2000.
Cursus honorum istituzionale da cui avrebbe dovuto trarre contezza che la perdita di spinta propulsiva del sistema d’impresa italiano risale non alla comparsa del “marziano a Roma” Giuseppe Conte, bensì alla metà degli anni Settanta, quando ebbe inizio la serrata degli investimenti da parte della terza generazione di italici imprenditori privati; qualche anno dopo, quando collassò l’industria partecipata dallo Stato per ragioni endogene (l’involuzione a bancomat dei potentati di partito) ed esogene (la concorrenza nei settori pesanti, siderurgici e cantieristici, dei Paesi di nuova industrializzazione; oltre alla contestuale incapacità di un management imbolsito di attivare contromosse alla tedesca: il riposizionamento qualitativo delle produzioni).
Cacciari queste cose le sa o insegue ancora la “questione settentrionale” dei distretti canonici (il nuovo modello di sviluppo della Terza Italia), fatti fuori dall’impossibilità di tener dietro con le loro pratiche di innovazioni incrementali l’affermarsi del paradigma tecno-economico, basato sull’integrazione sistemica nei milieu d’innovazione come Silicon Valley?
Del resto sono decenni che l’intelligenza collettiva nazionale non produce un’idea che sia una su come uscire dalla sfinente bonaccia del declino. Limitandosi a negarlo con l’insulsa retorica delle “eccellenze patrie” (dal pollame alla sanità lombarda). E ora pretenderemmo che un apprezzabile neofita della politica – il premier Conte – recuperasse con uno schiocco delle dita decenni di ritardi intellettuali?
Una polemica che si avvita nell’opera di demolizione dell’attuale maggioranza di governo, insieme all’altra tesi, biecamente strumentale: la denuncia della mancanza di indicazioni esaustive di medio periodo, quando gli scienziati ci dicono chiaramente che la pandemia muta incessantemente. Ossia impone come necessità adeguamenti opportunistici. Mentre gli Alessandro De Angelis pretenderebbero la presentazione di un piano come minimo decennale e relativo action set dettagliato.
Il fatto è che l’istanza minima avanzata dai Cacciari, nella loro foga narcisistica al ben altro, è quella di avere per premier Franklin Delano Roosevelt e per comitato tecnico un pool di cloni dello standard John Maynard Keynes. Una fuga irresponsabile verso l’eccelso, che consentirà ai bravi manzoniani (magari tipo l’invecchiato bambino dispettoso Maurizio Molinari), al servizio dei vari John Elkann et similia, di creare un clima favorevole per nuove Idi di Marzo; che elimineranno ogni ostacolo al disegno di mettere le mani sugli euro in arrivo da Bruxelles; spazzeranno via ogni opposizione ai Guzzini di Confindustria Macerata, secondo cui bisogna riaprire tutto. E se si muore di Covid, pazienza.
I poteri forti ringalluzziti dalla condiscendenza di pezzi del governo. Mentre i killer delegati all’opera già si aggirano: i trucidi della Destra, il cabarettista Matteo Renzi. Nel salottino di Lilli Gruber se ne rendono conto?