Sarà beato il “giudice ragazzino”. Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei di Rosario Livatino, ucciso dalla mafia ad Agrigento il 21 settembre 1990. La cerimonia di beatificazione si svolgerà nel 2021 nell’arcidiocesi siciliana dove il giudice è nato e ha vissuto tutta la sua breve vita, appena 38 anni. Livatino è il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica. Determinante nella causa di beatificazione è stata la testimonianza degli assassini del giudice, tra cui anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer incaricati di uccidere il magistrato. Alla vigilia della decisione di Bergoglio non sono, però, mancate le polemiche. La comunità di Canicattì, paese natale del magistrato e dove è sepolto insieme con i genitori, si è mobilitata a tutti i livelli, dal sindaco ai compagni di scuola del giudice fino ai semplici cittadini, per evitare che il suo corpo possa essere traslato nella cattedrale di Agrigento. Rivolgendosi direttamente al cardinale arcivescovo Francesco Montenegro e dicendosi “pronti anche a creare dei cordoni umani davanti al cimitero di Canicattì per impedire che Rosario venga portato ad Agrigento”.

Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, primo e unico figlio di Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e Rosalia Corbo. Negli anni del liceo si dedicò moltissimo allo studio e si impegnò nell’Azione cattolica alimentando così la sua fede. Si laureò in giurisprudenza a Palermo nel 1975 col massimo dei voti e a 26 anni, nell’estate 1978, entrò nella magistratura. Dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entrò alla Procura della Repubblica di Agrigento come pubblico ministero. Per la profonda conoscenza che aveva del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vennero subito affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firmò sentenze molto importanti che lo fecero entrare rapidamente nel mirino delle organizzazioni mafiose. Il 21 settembre 1990, mentre stava percorrendo come al solito la statale 640 per recarsi da Canicattì dove viveva al Tribunale di Agrigento, venne raggiunto da un commando di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina e barbaramente trucidato. Fin subito dopo la morte, la Chiesa cattolica riconobbe l’eroismo del giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria breve esistenza alla luce del Vangelo. Per questo motivo, fu successivamente avviata la causa di beatificazione che ora si è conclusa positivamente con l’approvazione di Bergoglio.

San Giovanni Paolo II definì Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Parole che il Papa polacco disse ai genitori del magistrato il 9 maggio 1993, poco prima di rivolgere ai mafiosi il suo storico appello alla conversione nella Valle dei Templi di Agrigento. Per Francesco “Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni”. E ha aggiunto: “Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo”. Secondo Bergoglio “Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”.

Il Papa,che nel 2014 scomunicò i mafiosi, ha rivelato, inoltre, di ritrovarsi molto in una riflessione di Livatino: “Decidere è scegliere; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.

Twitter: @FrancescoGrana

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