Prima hanno cercato di farlo passare per matto. Molti giornali, infatti, erano soliti dipingere Elon Musk come un folle sognatore, come un pazzo alla Tucker sempre sull’orlo del fallimento. Le sue automobili come pure ed esclusive fonti di incendi e di incidenti mortali. E mentre alcuni cercavano di distruggerne l’immagine, il mercato ha sempre creduto in lui, ha finanziato riccamente il progetto Tesla, l’idea di una rivoluzionaria auto elettrica partita dal nulla. E tutti sanno come è andata a finire.
Tesla oggi è la più grande industria automobilistica al mondo, e ora che è stata ammessa nello S&P vale oltre 500 miliardi di capitalizzazione, dopo aver superato d’un solo balzo tutte le old ladies giapponesi, tedesche e americane. Giusto e normale quindi che il Presidente di Toyota, come ha fatto recentemente, si stia mangiando il fegato, e spari a zero con tutta la forza mediatica del suo gruppo contro l’auto elettrica, invocando l’intervento dei governi (se potesse anche dei santi e dei profeti), per dimostrare che l’auto elettrica inquina più del diesel, che consuma, che costa, insomma a dire il peggio del peggio per una questione di vita o di morte, non solo per rallentare l’ascesa delle auto elettriche, ma per frenare il trionfo di un concorrente, che se oggi avesse quattro volte le capacità produttive, che pure ha già in misura elevatissima, spazzerebbe via in un solo colpo tutta la vecchia industria automobilistica del XX secolo.
Ma mentre il mercato per crescere ha bisogno vitale di rivoluzionari, poi non procede per rivoluzioni. Avanza con regolarità alternante, ma avanza ora piano, ora forte. E la gran parte dei commentatori, la gran parte degli interventi pro o contro l’auto elettrica, ovviamente anche i Grandi Capi delle industrie automobilistiche tradizionali, hanno dimenticato, forse di proposito, un punto fondamentale. Che il progresso tecnologico ha dei costi ineliminabili e non esistono soluzioni miracolistiche.
Non è che da un giorno all’altro, dalla mattina alla sera, tutto possa cambiare, che compaia d’incanto il mezzo (prodotto) ideale, in grado di rivoluzionare la nostra vita. Le nuove tecnologie, ancorché radicalmente innovative, modificano gradualmente il mondo, si diffondono con relativa lentezza, solo poco alla volta giungono a essere delle vere e proprie rivoluzioni, a superare nettamente i predecessori.
Per questo è necessario credere e investire nel progresso e nella ricerca, una volta individuati i settori a maggiori potenzialità di crescita, per giungere quanto prima alla maturità dell’innovazione. Le vecchie tecnologie ci abbandonano poco alla volta, anche se hanno dei cicli di vita inesorabili e, ad esempio, nel caso del motore a scoppio, come fu per il vapore alla fine dell’800, giungono a maturazione dopo 100-120 anni dai primi sviluppi e quindi devono essere abbandonate. Oggi l’ora ultima del motore a scoppio è scoccata definitivamente e come i rivoluzionari alla Musk avevano intuito, da qui a poco usciranno dalla nostra vita.
Così anche Apple – nata come l’azienda più innovativa del mondo e da un po’ di tempo in ristagno – ha compreso che il futuro è dell’auto elettrica, e disponendo di fatto di più tecnologie ad hoc di quasi tutte le vecchie industrie automobilistiche, pur operando in ben altri settori ha ripreso in questi giorni il suo progetto di auto elettrica che pareva abbandonare.
Poi verrà l’idrogeno, che Toyota sta sviluppando, ma il futuro a medio breve sarà di sicuro solo dell’auto elettrica. Con l’Italia lontana da capire dove va il mondo, con il capitale italiano assente, con le aziende italiane troppo “povere” per poter entrare in un mercato che richiede liquidità infinita, oltre che pazienza, senso del rischio e altissima tecnologia (che però forse non ci mancherebbe).
Quindi non vale ascoltare Toyoda Akio, che tira l’acqua al suo mulino, cioè fa un mestiere diverso da quello dei consumatori. I cittadini-acquirenti potrebbero trarre grandi vantaggi da un ulteriore impulso allo sviluppo dell’auto elettrica. Ma dovrebbero essere loro per primi ad esserne consapevoli, per poi spingere i governi verso scelte più aperte al futuro e meno conservative.