L'INTERVISTA - Il professore al FattoQuotidiano.it: "Almeno due mesi per capire la natura delle varianti, ma potrebbero essere state anche insufficienti le misure. Se su 250mila inglesi vaccinati non troviamo infezioni abbiamo un dato indiretto che ci dice che il vaccino è efficace. E qualora non lo fosse l'Rna consente una rimodulazione"
Un porto in lontananza, la luce di un faro e ancora un paio di miglia marittime da navigare. Massimo Clementi, professore ordinario e direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, smette per qualche minuto il camice da scienziato e usa una metafora per dire che il point of safe è “la vaccinazione di almeno il 70% della popolazione”, anche se dice di avere “un pallino personale”: gli anticorpi monoclonali. Non solo come terapia mirata – che è ora al vaglio dell’Aifa dopo l’inchiesta del Fatto Quotidiano – ma anche “come elemento di profilassi“. “Ci sarà un 5% della popolazione che pur vaccinandosi non sarà protetta – spiega Clementi che è specializzato anche in Infettivologia -. Non li possiamo abbandonare, li dobbiamo proteggere o eventualmente curarli se si infettano. Per questo sarebbe molto utile che accanto alla vaccinazione ci fosse la disponibilità di questi anticorpi”. Prima però abbiamo chiesto al professore cosa pensa della cosiddetta variante inglese che sembra aver posto un nuovo ostacolo agli sforzi per contenere i contagi.
La cronaca ci dice che evidentemente non è arrivata in Italia nei giorni scorsi, ma possiamo ipotizzare allora che sia responsabile dell’aumento dei contagi delle scorse settimane e anche del rallentamento della curva?
Questa è una bella domanda che tutti ci poniamo e me la pongo anche io, ma non è possibile dare una risposta in questo momento. Si ipotizza, ma nessuno lo ha ancora provato che questa variante sia più diffusiva e lo si dice sulla base di una valutazione empirica: circola tra la popolazione virale e si è via via col tempo incrementata come percentuale sui soggetti infettati. Però queste valutazioni sia della diffusività sia soprattutto – ed è ancora più importante – del potenziale patogeno della variante vanno fatte sia in vitro che in vivo e bisogna vedere se questa variante è più diffusiva e anche più patogena. Ebbene non abbiamo risposte a queste domande. Io sarei prudente prima di dire cose come ho sentito oggi sui bambini. Non c’è niente e stiamo dando una enfasi senza che ci siano dati.
Però osserviamo empiricamente questo aumento nonostante le restrizioni. Possiamo dire che è una ipotesi?
Sì certamente, lo possiamo ipotizzare ma non abbiamo la certezza. Potrebbero essere state anche insufficienti le misure che abbiamo preso. Quello che sappiamo che in alcune zone del mondo, non sembrerebbe in Italia, questa variante ha preso il sopravvento sull’altra, Ma non ma non è la prima volta. C’è stata quella che ha soppiantato il primo virus cinese. Queste varianti si formano, poi che abbiano fortuna o meno dipende da un effetto darwiniano: se vengono selezionate è perché in qualche modo hanno un vantaggio sulle altre. Il mio parere personale è che questa non abbia più potenziale patogeno e forse, ripeto forse, ha un modesto vantaggio di diffusione. Molto importante invece è che quasi nessuno dei vaccinati inglesi si è infettato con questa variante.
Quindi l’ipotesi – condivisa da tutta la comunità scientifica – che il vaccino non sia reso inefficace da questa variante al momento è confermata?
Il vaccino è probabilmente efficace. Se su 250mila inglesi vaccinati non trovo neanche una infezione è chiaramente un dato indiretto, ma importantissimo che mi fa dire che al 99% il vaccino funziona. Poi l’altro aspetto è quello che le società che fanno il vaccino a Rna hanno comunicato che nel caso fosse necessario in poco tempo possono rimodularlo. Poi potremmo indirizzarlo meglio. Non possiamo in un virus che cambia rincorrere ogni variante perché sarebbe folle e non produttivo. Questa dell’Rna è una opportunità importante anche per poter in futuro utilizzare questi vaccini in malattie diverse da questa qui. Spero che la medicina moderna non abbia a che fare solo con il Covid in futuro.
Da qualche giorno parliamo di variante inglese, da ieri di variante sudafricana e a settembre avevamo quella spagnola imputata di aver fatto esplodere a fine estate i contagi. Quando avremo la possibilità di capire dai dati di laboratorio la vera natura di tre varianti diventate “famose”?
Gli inglesi hanno elaborato un progetto (Covid 19 Genomics Consortium, ndr) finanziandolo con 20 milioni sterline per sette/otto laboratori importanti che sistematicamente hanno seguito la epidemia inglese sotto l’aspetto delle sequenze. Questi laboratori non facevano tamponi, tamponi, tamponi ma analizzavano la qualità del virus che circolava. Noi abbiamo in Italia cercato di fare nel centro nord qualcosa di analogo e ci siamo messi insieme sei/sette laboratori tutti autofinanziati non come nel Regno Unito dove i soldi li ha messi lo Stato. Noi abbiamo pubblicato un primo lavoro, adesso andiamo avanti ma con una potenza di fuoco enormemente inferiore. Per rispondere alla sua domanda quindi, per capire ci vuole il virus non soltanto sequenziato ma anche isolato, per studiare il fenotipo e valutare i diversi fenotipi in primo luogo; poi se sono diversi e che caratteristiche conferiscono al virus.
Ma quanto tempo ci vorrà?
Mesi. Bisogna valutare la capacità di infezione in vitro nelle colture cellulari, la capacità di essere neutralizzato dagli anticorpi che si formano nei soggetti che si infettano, la capacità di infettare gli animali (alcune specie sono modelli di infezione) e poi studiare l’infezione nell’uomo. Per fare uno studio completo un paio di mesi ci vogliono tutti. Andando rapidi
Cosa possiamo fare allora – oltre le misure che sappiamo e conosciamo a memoria – per arginare la pandemia?
Adesso vediamo la luce nel porto, ma ancora dobbiamo fare 2/3 miglia marine per arrivarci e dobbiamo arrivare nel porto – la vaccinazione – con il minor numero di danni possibili. Quindi se occorre qualche misura nel frattempo per arrivare lì ben venga a mio avviso. Dobbiamo vaccinarci, almeno al 70% della popolazione per superare questa situazione. È chiaro che dobbiamo velocizzare le procedure di vaccinazione. Tutti e il più rapidamente possibile. Nel frattempo questo pare sia un mio pallino, ma ho trovato qualche alleato recentemente.
Ovvero?
Ci vorrebbero gli anticorpi monoclonali perché sono al tempo stesso un farmaco – come ha ricordato ieri Palù (il presidente dell’Aifa, ndr) nella conferenza stampa – ma sono anche volendolo un elemento di profilassi. Se io mi inietto degli anticorpi monoclonali endovena e questi anticorpi circolano nel mio sangue per un mese e mezzo, io per un mese e mezzo sono protetto dall’infezione. Se l’anticorpo è veramente proteggente. Siccome questi vaccini proteggono al 94-95% ci sarà un 5% della popolazione che pur vaccinandosi non sarà protetta. Non li possiamo abbandonare, li dobbiamo proteggere o eventualmente curarli se si infettano. Per questo sarebbe molto utile che accanto alla vaccinazione ci fosse la disponibilità di questi anticorpi.
Il FattoQuotidiano nei mesi scorsi e anche in questi giorni si è occupato degli anticorpi monoclonali. Quindi potrebbero essere usati anche come profilassi?
L’Aifa se ne già occupando. Sono certo che il presidente Palù lo porterà avanti.
Il Centro europeo di controllo delle malattie infettive (Ecdc) ha inviato a tracciare e sequenziare il virus. Al Fattoquotidiano risulta che esista una bozza di progetto di una infrastruttura. Secondo lei sarà possibile fare un consorzio di laboratorio come in Gran Bretagna?
Sarebbe bellissimo se ci fosse una strategia condivisa e razionale. Se invece si raccolgono dati e si invia tutto a Roma e non vediamo i dati sicuramente non funziona e non avrei neanche una motivazione scientifica. Se invece ci si organizza come è successo in Inghilterra con 6/7 laboratori molto competenti e validi e si mettono insieme i risultati allora sì. C’è stato un momento in Italia in cui la ricerca virologica ha avuto un impulso enorme: quando all’Istituto superiore di sanità Giovanni Battista Rossi fece il progetto Aids con un comitato scientifico di assoluto valore: è stato un volano di ricerca in tutto il paese a livello internazionale. Io stesso credo che debba la mia carriera a questo. Quella cosa poi purtroppo è morta con Rossi, è durata qualche anno ma ha avuto un ruolo importantissimo. Se ci fosse in un ambito più limitato e orientato come questo del Covid una collaborazione così certamente sì.
C’è qualcosa che vuole aggiungere?
Credo in tutta questa vicenda ci sia stata troppa politica e troppa poca tecnica. Troppa politica anche tra gli scienziati, in senso lato non partitico. Nel complesso della situazione molto difficile che tutto il mondo ha vissuto non penso che l’Italia si sia comportata male o tanto peggio rispetto agli altri paesi, penso che a volte lo abbiamo fatto con molta confusione. Qualche volta qualcosa ci è sfuggito, Avere un network di laboratori che potessero lavorare sul sequenziamento ci poteva far capire che cosa stava accadendo, ma al sequenziamento è stato dato un valore secondario. Quando si diceva tamponi, tamponi, tamponi, non si diceva anche sequenze, sequenze, sequenze. Non è per niente facile e non vorrei essere al posto dei politici che devono tutelare la salute delle persone e prendere provvedimenti tenendo in considerazione anche l’andamento economico del paese. È un equilibrio difficile da trovare.