Napoli, dicembre 2020. Da queste parti la didattica a distanza è cominciata a metà ottobre. Appena si è diffusa la notizia di un caso di positività al virus nella nostra scuola, sono stati dapprima i ragazzi a disertare le aule. Poi sono arrivate le direttive dall’alto. Tra le due cose, se non sbaglio, c’è stata anche un’allerta meteo che ha portato alla chiusura per un giorno di tutti gli istituti scolastici della città. La pioggia di ordinanze non ci ha trovato, però, impreparati e subito abbiamo cominciato, seduti al tavolo del salotto di casa, a parlare davanti a un pc.
Una mattina, dopo un litigio casalingo con la connessione internet, sono andata a scuola a fare lezione online. “Prof, ma quella dietro di lei è la lavagna? Ma è a scuola?!”. “Oddio, ma che ci fa lì?!”. “Ma quindi la scuola è aperta? Può inquadrare i nostri banchi, prof?”.
Una docente circondata dalle pareti di un’aula: fenomeno che un tempo appariva lapalissiano ma che la pandemia, oggi, ha rovesciato nel suo significato. In pochi mesi, sedere dietro una cattedra è diventato un elemento di stupore per i miei studenti, mentre non ha creato scompiglio la spiegazione di Giotto dalla cameretta a casa dei miei genitori, in un cortocircuito percettivo disorientante, in un gioco di specchi tra stanze di adolescenti – la mia anni Novanta e loro del 2020.
Ho incontrato per la prima volta le mie studentesse e i miei studenti a fine settembre e li ho visti, in carne e ossa, per circa quindici giorni. Dopo due mesi di didattica a distanza, non so dire nulla a proposito della loro altezza o della loro andatura, non so che gusti abbiano nel vestire o se gesticolino mentre parlano, ma conosco bene i loro volti e il loro impegno nello studio, i poster appesi alle pareti, i loro gatti che si arrampicano sulle sedie, le stanzette da cui si collegano.
Riconosco il modellino della barca in legno che campeggia sulla libreria alle spalle di Giusi, la madre di Fabrizio che alla quinta ora del giovedì comincia a preparare il pranzo, il letto alla destra di Michele, i vinili dietro la testa di Ginevra. C’è sempre, ogni volta, qualcuno che passa: un’ombra dietro il vetro della porta, un fratello più piccolo che viene fatto allontanare in malo modo, il muso di un aspirapolvere che fa capolino e scappa via.
Viceversa, i miei studenti sono addentro alle dinamiche di casa nostra: sanno che alla prima ora del venerdì è presente anche Anita che, riottosa, si appresta ad andare al nido e che, nei momenti di emergenza, dovrò spiegare Caravaggio con Peppa Pig in sottofondo; conoscono le voci dei miei due cani che abbaiano quando sentono un rumore nelle scale del palazzo. Hanno imparato a seguire le lezioni con la colonna sonora, dal vivo, di mio marito: “Professoressa, ma io sento una tromba!”. Hanno persino salutato l’operaio che è venuto a sistemare la perdita al rubinetto del bagno.
Non so come sarà incontrarsi nuovamente dal vivo in un contesto neutrale, come quello di un’aula scolastica, dopo aver condiviso una quotidianità che è fisiologicamente estranea al rapporto docente-discente. Non so quale sarà l’effetto del rivedersi a figura intera e non più a mezzobusto, quale percezione avremo del trovarci, nello stesso momento, insieme in uno stesso spazio. Non so quanto tempo dovrà passare per fare queste azioni, un tempo naturali, in sicurezza e senza paura.
Tuttavia, posso dire che questa modalità di didattica emergenziale, pallido surrogato della magia dell’ora di lezione, ha generato una forma inedita e paradossale di relazione con l’altro in cui l’idea di distanza non coincide con quella di distacco, ma corrisponde, per assurdo, a un’inattesa confidenza con gli spazi domestici altrui, con pezzetti di case e scene private che, senza parlare, raccontano molto dei propri abitanti. Anche da lontano.