“Odio mia mamma, I hate mum, Je déteste ma maman, odio a mi madre”. Il più piccolo di tutti (avrà avuto 3 o 4 anni), allora bilingue italo-spagnolo, successivamente genio, seduto in mezzo a una tavolata natalizia delle più tradizionali, decise di mostrarci così la sua conoscenza delle lingue.

Ridevo allora e rido ora. Anzi, di certo rido più nel ricordo: sul momento, non sapevo se dovevo prenderla con un certo grado di tragicità. In fondo avevo poco più di vent’anni. Scherzare sulle cose serie della vita (o persino distinguere quelle drammatiche da quelle in fondo comiche) non era così istintivo.

Sarà stato un Natale degli anni 90. Che veniva dopo tanti degli anni 80. A casa mia. Cioè a casa di mia madre. Eravamo tantissimi allora. Un gruppo eterogeneo di fratelli con rispettivi figli. Originari di Napoli, sparsi in tutti gli angoli d’Italia. Ma la location era Roma. A un certo punto, chi abitava da qualche altra parte cominciava a calare sulla Capitale. E a gravitare intorno a casa mia, che si trovava in pieno centro.

Io la vedevo più o meno come un’invasione, più o meno come un’occasione. Il Natale era una via di mezzo tra un’obbligata incombenza familiare, un momento di sofferenza emotiva certa e acuta, un evento denso di gioiosa aspettativa.

“Nelle vongole c’è la sabbia”. Il cugino più grande dava il via alle critiche sulla cena della Vigilia. Guardava il piatto, assaggiava. Alzava gli occhi, per pochi secondi in silenzio. Poi decretava. Seguivano commenti sulla stessa linea, una volta sdoganato il problema. “Ma come, ero sicura che quest’anno l’avevo tolta tutta”, rispondeva mia madre, cuoca improvvisata. Però non si scomponeva più di tanto.

Fisica, poi Preside, donna piena di risorse (tipo quella di aggiustare qualsiasi cosa), attenta all’essenza delle cose, la cucina come priorità non la considerava proprio. Perché poi di fondo gli astanti non erano pochi. A capotavola, la nonna. Maglione, collana di perle, messa in piega perfetta. Anche lei non esattamente il prototipo della fragile vecchietta, quanto quello del Comandante in capo. Che tutto vuole sapere, tutto controllare, tutto indirizzare. Cena di Natale compresa.

“Ave Maria”. Iniziava sempre richiamando tutti a dire con lei una preghiera. Nessuno la seguiva con convinzione, ma tutti la lasciavano fare. Lei storceva la bocca, smorfia tipica da signora altolocata: piuttosto che esprimere disapprovazione, la lasciava trasparire con disprezzo. E arrivava imperterrita fino all’”Amen”.

I semi-miscredenti intorno a lei mormoravano un vocabolo che vi assomigliava. Poi, si iniziava a mangiare. Chiacchiere politiche finivano sul nascere: a quel tavolo, si univano la destra più tradizionale e la sinistra più estrema. Meglio evitare. Mentre le critiche sul cibo aumentavano, diventavano una specie di tormentone.

Subito dopo cena, accadeva che le cugine anziane si riunissero in una stanza per raccontarsi qualche love story. Ovviamente, senza lieto fine. Le più piccole passavano: se avevano qualche accadimento drammatico da condividere venivano ascoltate, altrimenti rapidamente rimandate dai grandi.

L’albero di Natale traboccava di regali. Prima di aprirli, c’era sempre qualche nucleo familiare che andava via: aveva deciso di consumare quella parte della cerimonia per conto proprio. Pudore? Snobismo? Tolleranza limitata?

Stava a mio padre fare la parte di Babbo Natale. In quei momenti diventava l’istrione che in fondo in fondo era, anche se spesso non lo faceva vedere. Tirava fuori accento napoletano, tono stentoreo, prese in giro personalizzate. Provocare diventava una missione.

Intanto, la colonna sonora si ripeteva simile da un anno all’altro. “E’ un maglione. Non sapevo che regalarti. Se non ti piace, lo puoi cambiare”. “Ma no va benissimo. Certo, se ci fosse un po’ più scuro. Più largo. Magari con i bottoni?”. Finti gridolini di sorpresa: “Ma grazie. Proprio quello che volevo”, esclamava una zia, mentre controllava che il modello degli orecchini fosse esattamente quello indicato al marito con una precisione che nulla lasciava al caso.

Io accumulavo libri. E accanto alla pila, rispondente alla lista accurata, studiata per mesi, consegnata a chi di dovere (la variante adulta di Babbo Natale), mi arrivava sempre qualche altra cosa. Che trovavo costantemente “troppo”. Troppo costosa, troppo lontana da me, troppo diversa da quello che mi aspettavo. Troppo bella. Troppo qualcosa, forse, e basta.

Una volta per un Loden mi venne un attacco di sconforto che non voleva passare. Mi sentivo sovrastare, incapace di esprimere gratitudine. Allora, diventavo antipatica. Più lo diventavo, più esageravo. Piano piano, intanto, la casa si svuotava. Io a quel punto ringraziavo e basta. Crisi passata, a torto o a ragione.

Ognuno metteva i suoi regali in una busta. Io ero combattuta tra “è finita anche quest’anno” e la voglia di ricominciare. Di avere un’altra occasione, un altro Natale. Senza rimpianti e senza rimorsi.

Ma poi, oggi che per prepararmi a un Natale-non Natale sogno la riva del mare, dopo aver fatto una specie di presepe che mette insieme una renna enorme e San Giuseppe e la Madonna, rispondo alle decine di messaggi di mio fratello uguali a quelli di allora (“Che regalo vuoi?”, “Per favore, dimmi esattamente quello che ti piacerebbe”, “Hai deciso che vuoi? Sei sicura sicura”) e rifletto sul tavolo che consente di cenare con la maggiore distanza possibile, mi chiedo: senza rimpianti, senza rimorsi, senza desideri da realizzare la prossima volta, che Natale sarebbe?

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