di Carmelo Zaccaria
“Si può diventare ‘principe’ di uno Stato giovandosi del favore del popolo oppure servendosi dell’appoggio di Grandi potentati. Per pervenire alla sua guida tuttavia ci vuole molta fortuna o molta virtù”. Così argomenta Machiavelli che poi, per scrupolo, aggiunge un altro requisito decisivo, cioè possedere una “astuzia fortunata”.
Il premier Giuseppe Conte, probabilmente, si avvale di questa peculiarità. Egli ha capito, conoscendo sicuramente il pensiero di Machiavelli, che dal popolo ci si può difendere, basta non contraddirlo, mentre dai Grandi bisogna sempre stare in guardia, perché possono rivoltarsi contro e abbandonarti al tuo destino quando meno te l’aspetti. Oggi non sappiamo quanta parte della nostra classe dirigente tiene a mente quello che era l’intento esplicito de Il Principe, cioè quello di esortare le astiose contrade italiche a mettersi insieme per costruire uno Stato nazionale indipendente ed unitario.
Purtroppo dobbiamo osservare, con stupore, come, nel pieno della emergenza sanitaria e con gli impegni gravosi che il Paese deve affrontare nei prossimi mesi, il ceto politico, e non solo, non trovi di meglio che avventurarsi in stucchevoli distinguo verbali e impulsi di protagonismo narcisista che infiacchiscono i fondamenti della società civile.
Si insiste, paradossalmente, in una permanente diatriba tra finti contendenti che contamina da sempre la gestione della cosa pubblica nel nostro Paese, dominata da degrado morale e roboanti proclami. Nel frattempo però non emerge alcun talento nel presidiare il presente, nessun progetto sensato per l’Italia del futuro. Si certifica da più parti ormai il totale fallimento di una classe dirigente velleitaria, di qualità scadente, che a volte si ha difficoltà a percepire come parte integrante della nazione.
Ma allora, se questi sono i risultati, verrebbe da chiedersi se non stiamo interpretando Machiavelli in modo ingannevole, oppure, per assurdo, se non sono proprio le prescrizioni del maestro, senza volerlo, a rovinarci. In definitiva ciò che ci ha sempre intrigato del grande fiorentino è la convinzione che per valutare l’azione politica non serve tanto che questa sia conforme a qualche legge morale, quanto risulti essere efficace e utile per le sorti dello Stato. La politica separata dall’etica.
Machiavelli invita a governare con la forza del leone e l’astuzia della volpe. Afferma che non serve avere buone qualità, mentre è necessario sembrare di averle. Ritiene che chi governa non è tenuto ad osservare tutti quei sani principi che hanno gli uomini probi. Del resto, l’arte del saper simulare e dissimulare è pane quotidiano per la nostra classe politica.
Altra storia, probabilmente, sarebbe stata se avessimo seguito i precetti concepiti nel De Clementia di Seneca, dove alla durezza e al cinico comportamento del principe si contrappone la premura di saper governare con clemenza e moderazione, escludendo ogni forma di crudeltà e di violenza. Seneca afferma che la parsimonia dei castighi corregge meglio i costumi degli uomini, perché nella città dove gli uomini sono puniti raramente si fa largo un generale consenso per la rettitudine.
La clemenza difatti non denota mollezza, non significa essere sempre accondiscendenti, ma si riferisce ad un ambito di natura politica dove l’etica è imprescindibile dalla gestione del potere, significa cioè esercitare il proprio potere in modo benefico e salutare, rimanendo giusti ed empatici soprattutto quando si esercita un supremo potere.
Uno solo è il baluardo inespugnabile: l’amore dei cittadini! Il principe insomma deve comportarsi con senso della misura e in base a solidi principi morali, assolvendo agli stessi doveri di un buon padre la cui podestà si riconosce nel prendersi cura dei propri figli, anteponendo i loro interessi ai suoi. Dimostrando così che non è lo Stato ad appartenergli, bensì che è lui ad appartenere allo Stato. Una lezione che oggi servirebbe più delle inebrianti interpretazioni del Machiavelli.