La pistola che uccise Beppe Alfano. Ruota tutto intorno all’arma del delitto la nuova indagine richiesta dalla gip di Messina, Valeria Curatolo, sull’omicidio del corrispondente de La Sicilia, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto ben 28 anni fa. “Una vita”, sottolinea Sonia Alfano, figlia del giornalista ucciso l’8 gennaio del 1993. Dopo tutti questi anni giovedì scorso sono state disposte di fatto nuove indagini. L’occasione è stata la richiesta di archiviazione da parte della Dda di Messina, per quel che riguarda le indagini a carico di due sospetti: Stefano Genovese e Basilio Condipodero sono stati indicati rispettivamente sicario e basista dell’omicidio dal collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico. All’archiviazione però si è opposto Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. Curatolo ha accolto la richiesta della Dda, non ritenendo sufficienti le prove a carico dei due sospetti, ma ha disposto una proroga di indagini.

“Non una semplice proroga”, sottolinea Alfano. La gip, infatti, scrive nero su bianco quali sono gli aspetti da approfondire, e tutto ruota intorno all’arma del delitto, mai trovata. Furono esattamente tre pallottole ad ucciderlo, una delle quali esplosa direttamente nella bocca del giornalista. L’esame balistico sui proiettili ha rivelato che furono sparati da una calibro 22 di produzione americana. E la gip si sofferma sulla proprietà dichiarata di una calibro 22 North American Arms da parte di Mario Imbesi, che poi l’ha ceduta a Franco Mariani, i cui rapporti con Saro Cattafi sono noti. “Mario Imbesi nel giugno del 1978 ha ceduto a Franco Mariani, a Terme Vigliatore, una pistola calibro 22 North American Arms”, scrive Curatolo. Che più avanti nel dispositivo di proroga delle indagini sottolinea: “È emersa la sussistenza di contatti tra Mariani e Cattafi Rosario, che in particolare il Mariani ha riferito di avere conosciuto il Cattafi all’incirca nel 1976 a Milano, a casa di un amico comune, e di essere stato una sola volta a casa del Cattafi a Barcellona, per il battesimo di un bambino, mentre si trovava in vacanza a Taormina. Che ancora nei primi anni ’80, il Mariani è stato coinvolto, insieme al Cattafi, in un procedimento penale per i reati di associazione mafiosa, sequestro di persona, omicidio e altro”.

Rosario Cattafi, detto Saro, è uno dei personaggi più controversi nella storia della mafia barcellonese (ma non solo: fu ascoltato anche nel processo sulla Trattativa, dove si avvalse della facoltà di non rispondere): indicato da collaboratori di giustizia come capo dell’organizzazione criminale, fu arrestato e condannato in primo e secondo grado. La Cassazione però ha annullato la condanna, scrivendo nero su bianco che Cattafi non è stato capo della mafia barcellonese e i suoi rapporti col gruppo mafioso non vanno oltre il 2000, ma allo stesso tempo la Corte ha disposto un nuovo processo a Reggio Calabria per i suoi rapporti con la mafia dagli anni ’70 al 2000.

“Sono certa che Cattafi abbia avuto un ruolo importante quella notte in cui mio padre fu ucciso”, sostiene la figlia del giornalista. Poi aggiunge: “Finché avrò respiro non lascerò pace ai suoi assassini”. E sono passati già tanti anni: “Ho fiducia che la verità verrà a galla, devo averne, non ho altra scelta e fino all’ultimo respiro combatterò, l’alternativa sarebbe dargliela vinta”. Beppe Alfano è stato un giornalista scomodo, inviso alla criminalità organizzata locale. Soprattutto perché sostenne che il latitante Nitto Santapaola si nascondesse proprio a Barcellona. Quella notte di inizio gennaio viene braccato nella sua Renault 9 in una viuzza del centro città. Tre colpi. Alfano ha solo 42 anni, e lascia oltre la moglie, tre figli, di cui la più grande, Sonia. Dal giorno dopo è partita la narrazione della mafia barcellonese: “ln quell’occasione Di Salvo (esponente di spicco della mafia locale, ndr) mi disse: Dissimu chi chi chistu era nu ‘mbriacuni”, così riferisce D’Amico ai pm. Un ubriacone che aveva problemi con le donne, perfino violento con la figlia e con la moglie: “Chi ci miscava a so mugghieri ed a so figghia…”, ha continuato il pentito.

Così la mafia barcellonese per allontanare da sé ogni sospetto ha puntato a screditarlo, perché ne temeva le conseguenze: “Cu st’omicidio ci arrestano a tutti”, nel racconto di D’amico, a pronunciare queste parole è Pippo Gullotti, il boss, indicato come punto di riferimento di Cosa Nostra nella provincia di Messina dai pentiti Brusca e Di Matteo, che sta scontando una pena a 30 anni di reclusione per avere ordinato l’omicidio del giornalista. Ma fu l’unico mandante? E chi sparò quella notte? Curatolo vuole vederci chiaro e ha indicato ai pm di nominare un esperto internazionale di balistica per fare luce sull’arma di delitto e in particolare su chi possedeva una calibro 22 di fabbrica americana in quel periodo nel Messinese. Ma ha disposto anche, tra le altre cose, l’audizione della moglie di Mariani, per approfondire i rapporti di questo con Cattafi. La Dda di Messina avrà sei mesi di tempo per fare luce su questi aspetti. Perché sull’omicidio del giornalista sono ancora troppi gli interrogativi. Soltanto 28 anni dopo.

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