Secondo i dati Istat 2018 oltre il 30 per cento delle donne non esce di casa la sera per paura. Ma il problema riguarda anche le ore diurne e chiama in causa la necessità di una radicale trasformazione della cultura e dell'educazione. Nel vuoto di proposte da parte delle istituzioni, chi si è mosso sono alcuni Comuni con iniziative sporadiche. E mentre online proliferano le applicazioni, due ragazze hanno lanciato la campagna Wannabesafe
“Ho paura, mi accompagni?”. Una domanda che prima o poi chiunque si è sentito rivolgere. Soprattutto se a farla è una donna. Come tutte le donne (o quasi), prima o poi, ha fatto l’esperienza del cat calling, termine con cui si indicano le molestie in strada: commenti indesiderati, gesti, strombazzi, fischi, inseguimenti, avance sessuali e, ancora peggio, palpeggiamenti da parte di estranei in aree pubbliche come strade, centri commerciali e mezzi di trasporto. Sono tante le ragazze che ammettono di allungare la strada per farla con le amiche e ritrovarsi il meno possibile da sole, tornano prima a casa o alla fine decidono di non uscire. Secondo il rapporto Istat 2018 sulla percezione della sicurezza per la popolazione (riportato dal Sole 24 ore), il 36,6% delle donne intervistate ha detto di non uscire di sera per paura (gli uomini sono l’8,5%) e il 35,3% ha dichiarato invece che quando esce da sola di sera non si sente sicura. Un problema che non può essere risolto solo con maggiore sicurezza in strada, ma dovrebbe intervenire su una radicale trasformazione della cultura e dell’educazione.
Nel vuoto di proposte da parte delle istituzioni, chi si è mosso sono alcuni Comuni con iniziative sporadiche. Trento, Bologna e Ferrara sono solo alcune delle città che negli ultimi anni hanno avviato i “voucher taxi”, cioè tariffe agevolate per alcune categorie di cittadini, tra cui proprio le donne che si spostano durante la notte. A un prezzo più contenuto, ragazze e signore sono così incentivate a utilizzare le auto pubbliche invece che camminare a piedi da sole. Il Comune di Milano, che ha lanciato anche lui il servizio da agosto 2020, ha deciso di rinnovarlo fino al 15 gennaio, dopo aver già ampliato a fine novembre la fascia oraria per le donne che escono di casa la sera (dalle 18, e non più dalle 21, fino alle 6 del mattino), inserendo anche le donne in gravidanza tra le categorie di cittadini che possono utilizzare l’auto pubblica a tariffe agevolate. In questi mesi, infatti, sono giunte all’Amministrazione circa 19mila richieste di voucher: a novembre su più di 10mila il 21,3% delle richieste apparteneva a donne, fa sapere il Comune.
“Sicuramente la percezione di pericolo è alta e le ragazze si sentono poco tutelate di notte – sottolinea a ilfatto.it la psicologa Lara Epifani –. Il buio, le poche persone in giro e, soprattutto, il fatto che se accade qualcosa di brutto è molto più difficile denunciare i responsabili, anche solo trovarli. Già è difficile denunciare in generale di aver subito un evento traumatico”. Affidarsi a questo tipo di servizi rappresenta quindi una tranquillità per la donna. Dopotutto, la sicurezza in strada è oggettiva, aggiunge la specialista, ma finché c’è la possibilità bisogna sfruttare queste iniziative, utili e al momento necessarie. D’altra parte, però, “fornire questi servizi per garantire sicurezza significa che abbiamo un problema – ammette lei –. Sono soluzioni palliative, che sottolineano che le donne hanno ancora bisogno di protezione e che sono una categoria discriminata”.
“Più sicura se accompagnata di notte fin sotto casa, anche in ztl”. Il Comune di Modena lo permette
Modena, oltre a mettere a disposizione i voucher taxi, da anni ha risolto uno dei problemi di una città con un centro storico: l’impossibilità per i non residenti di entrare all’interno della zona traffico limitato. Per una ragazza con domicilio all’interno della ztl, infatti, prima era impossibile essere accompagnata fin sotto casa da amiche che abitavano in un’altra zona della città, a meno che queste non volessero pagare una multa salatissima. Dal 2008, però, il Comune ha messo a disposizione il servizio accompagnamento delle donne: chi ha la residenza o il domicilio in ztl può essere scortato in macchina o con altri mezzi da chiunque. “È semplice, basta chiamare il numero della Polizia locale e segnalare la targa del veicolo”, sottolinea Isabella che abita a un paio di vie dal confine ztl, ma ammette di aver utilizzato lei stessa con amiche e amici il servizio più e più volte. “Anche fare un paio di strade da sola di notte mi spaventa”, aggiunge la giovane.
Il servizio è aperto a tutti, ragazzi, bambini e anziani, ma negli anni è stato utilizzato decisamente più da ragazze e donne. Su oltre 18mila autorizzazioni rilasciate dal 2012 – anno in cui l’attività è stata ampliata passando dalla fascia oraria 23-5 all’attuale 20-6 – fino al 30 ottobre, sono solo poche decine le richieste fatte da uomini anziani e bambini.
“Questo servizio mi dà la certezza di non dover temere di incontrare ragazzi o uomini che possono farmi il commentino o fermarmi”, spiega. Ma Isabella non è l’unica a pensarla così. In media all’anno, infatti, sono state più di 2mila le donne e le giovani a richiedere l’autorizzazione al servizio. Secondo i dati del Comune di Modena, il picco di richieste è stato raggiunto tra il 2015 e il 2016: in media la Polizia locale ha rilasciato quasi otto permessi di transito a notte (rispettivamente per un totale di 2.909 e 2.882 autorizzazioni). Il dato più basso invece è stato registrato nell’ultimo anno, a causa dei limitati spostamenti delle persone per le misure restrittive contro la diffusione del Covid-19, in particolare nel periodo di lockdown: nel 2020, in media i permessi sono stati circa tre al giorno, per un totale di 1.122 autorizzazioni.
Petizione per far diventare il catcalling un reato: “Culturalmente non sono nemmeno considerate molestie”
“La prima volta che ho subito molestie in strada avevo 12 anni, non sapevo nemmeno cosa stesse accadendo”. Linda Guerrini, 19 anni, studentessa di economia e gestione delle arti a Venezia, spiega a ilfattoquotidiano.it che troppo spesso ha avuto e ha ancora a che fare con questo tipo di episodi. Per questo lo scorso 23 aprile ha lanciato su change.org la petizione “Rendere il catcalling un reato” e promuove sui social, insieme a Maria Anouk Benini, la campagna “Wannabesafe”. “Volevo fare qualcosa di concreto – racconta la ragazza – Quel giorno ero uscita di casa in tuta, in pieno lockdown, per andare a fare la spesa e nell’arco di dieci minuti ho subito otto molestie. Quando sono tornata a casa sono scoppiata a piangere”.
In Italia fischi, commenti, avances non richieste non sono considerate reato. “Non sono nemmeno culturalmente ritenute molestie, perseguibili invece secondo l’articolo 660 del codice penale – sottolinea Guerrini -. Sono ‘complimenti’, ti dicono. ‘Sei bella è normale che ti capiti’ oppure ‘eri vestita così quindi dovevi aspettartelo’. Ma noi donne sappiamo che questi non sono apprezzamenti ma molestie sessuali ed è tempo che vengano punite”.
La stessa petizione è stata fatta anche nel Regno Unito da due sorelle, Gemma, 15 anni, e Maya Tutton, 21 anni che fino ad ora hanno raccolto più di 223mila firme a favore. Promotrice della lotta contro il catcalling però è la Francia: nell’agosto 2018 è entrata in vigore la legge che vieta i comportamenti sessuali o sessisti degradanti, umilianti o intimidatori multati sul posto da 90 a 1.500 euro se la vittima ha meno di 15 anni.
“La norma in Italia serve soprattutto per prendere coscienza di un problema che esiste”, aggiunge Guerrini. Il catcalling infatti è un tema di cui si discute da tempo e di cui si cerca di sensibilizzare non solo tramite i mezzi tradizionali, per giungere prima o poi a qualcosa di concreto: in molte si sono autoriprese mentre camminano in strada per mostrare quante molestie quotidianamente subisce il genere femminile e profili social, come quello di “Sono solo complimenti”, riportano storie e testimonianze delle utenti stesse per sottolineare quanto questi episodi non facciano piacere, a dispetto di quello che si pensa.
Un’app per chiedere aiuto o informarsi
Per sentirti al sicuro basta un click. Oltre al Numero antiviolenza e stalking 1522, attivo 24 ore su 24, sono diverse le applicazioni che si possono scaricare sullo smartphone per poter chiedere aiuto velocemente in caso di necessità, informarsi sui centri antiviolenza della zona o sapere quali sono le zone che potrebbero essere più pericolose da attraversare a piedi.
L’applicazione SecurWoman 2.0 (attualmente in stand by, ma presto ripartirà con molte più funzioni) è una sorta di guardia del corpo virtuale. “Una volta scesi dall’auto per rientrare a casa dall’ufficio, nel parcheggio o in zone isolate, basta attivare il sistema di SecureWoman con un click e da qual momento l’app si mette in ascolto – spiega Moreno Tartaglini, socio e amministratore di Arxit, azienda che ha realizzato l’applicazione –. Basta una qualsiasi situazione anomala, anche solo l’aumento dell’ansia, e scuotendo il telefono il sistema ti mette in contatto con un operatore”. In caso di aggressione o scippo, sempre muovendo il telefono, “l’attività funziona anche buttando la borsa a terra – sottolinea Tartaglini – se l’operatore non riceve una risposta, fa subito partire una chiamata d’emergenza a una Centrale Operativa e la persona viene geolocalizzata”.
Anche S.h.a.w. ti permette di chiamare direttamente il 112, “ma non è questa la sua funzione principale”, spiega Mariolina Coppola, presidente di Soroptimist international d’Italia. “S.h.a.w. non è un’applicazione di pronto intervento, ma di prevenzione”, sottolinea Coppola. L’app localizza i centri antiviolenza della zona e all’interno della sezione “Leggi” sono sintetizzati i principali aspetti legislativi relativi ai reati di violenza sessuale, aggiornato alla legge del “Codice rosso”.
L’applicazione bSafe che come un social network e ti permette di creare una rete di amici o familiari che verranno avvisati in caso di pericolo, Wher che consiglia i percorsi migliori da fare a piedi, basandosi sulle recensioni delle utenti stesse, e tante altre app, sono tutti servizi che “vogliono coprire quel problema lì, l’insicurezza in strada – commenta a ilfattoquotidiano.it Giulia, 25 anni, studentessa all’Università di Bologna – Finché non si potrà rivoluzionare la società maschilista in cui viviamo, finché un uomo sentirà di avere il diritto di poterti mettere a disagio e umiliare anche con un fischio per strada rendendoti insicura di camminare da sola di notte, le donne avranno paura e avranno bisogno di servizi come queste app per continuare a vivere la loro vita”.
“Troppa protezione non ci rende libere”
Preoccuparsi sì, ma troppo è limitativo. Dopotutto, “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”, spiega a ilfatto.it Rosanna Bartolini, presidente della Casa delle donne contro la violenza di Modena, partendo proprio da una frase su cui le femministe di Non una di meno e non solo negli ultimi anni hanno fatto più battaglie. Secondo la presidente, questi servizi non aiutano ad andare alla radice del problema: “La donna deve essere sempre sicura e libera di camminare ovunque – aggiunge – e la soluzione non è vincolare una ragazza a dover essere accompagnata fino sotto casa”.
Il vero nemico poi non è in strada, “ma in casa”, sottolinea Bartolini. Nell’82% dei casi chi fa violenza su una donna è tra le mura domestiche, lo specifica il rapporto diffuso dalla Polizia di Stato “Questo non è amore” con i dati aggiornati al 2019 sulla violenza sulle donne. “Le aggressioni singole non sono numeri rilevanti in confronto a quelli che si registrano dentro casa – aggiunge la presidente – Nel nostro centro qualche volta sono venute ragazze aggredite per strada, ma parliamo di poche unità rispetto alle centinaia che accogliamo ogni anno”.
Ad essere rilevante però, spiega Bartolini, è la percezione di pericolo che si ha e che “porta all’utilizzo di servizi come questi: uno degli stereotipi sulla violenza è quello che il bruto è l’uomo per strada e non quello in casa”. Per aiutare le donne serve prevenzione, non telecamere, conclude la presidente: “Non è con una politica securitaria che si cambiano le cose: troppa protezione non ci rende libere”.