Lo scorso 8 ottobre è stato firmato in via definitiva il nuovo contratto collettivo nazionale della sanità privata, che prevede 154 euro in più al mese, una tantum da 1000 euro e agevolazioni in termini di permessi, ferie e malattia. Alcune case di riposo e strutture psichiatriche non lo applicano. La Regione: "Si collocano fuori dall'accreditamento"
“Chi lavora in nome e per conto del servizio sanitario nazionale deve applicare i contratti nazionali e i loro rinnovi. Chi non vuole applicarli si colloca lui stesso fuori dal servizio sanitario nazionale”. L’assessore alla sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, ha le idee chiare: chi aderisce all’ultimo rinnovo del contratto collettivo nazionale della sanità privata mantiene l’accreditamento con la Regione, chi rifiuta si taglia fuori dai giochi. Eppure sette strutture non hanno ancora riconosciuto ai dipendenti le nuove tutele e l’aumento previsto.
Un passo indietro. Lo scorso 8 ottobre è stato firmato in via definitiva il nuovo contratto collettivo nazionale della sanità privata, alla presenza del ministro Roberto Speranza, dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) e dall’Associazione religiosa istituti socio-sanitari (Aris), d’accordo con varie sigle sindacali. Un accordo che arriva con 14 anni di ritardo e in piena pandemia. L’obiettivo è la parità di diritti e di salario tra il settore pubblico e quello privato. L’ultimo contratto nazionale risaliva al periodo 2002-2005 e la parte relativa al trattamento economico ad ancora prima, 2002-2003. Il rinnovo prevede, per oltre 100mila lavoratrici e lavoratori, un aumento del 4,2% pari a circa 154 euro al mese e un una tantum da 1000 euro divisa in due tranche, oltre a una serie di agevolazioni in termini di permessi, ferie e malattia.
Eppure non tutti hanno deciso di aderire: solo nel Lazio le strutture ancora oggi in bilico sono sette. Si tratta per lo più di case di riposo come Villa Ardeatina, Villa Verde, Sant’Antonio da Padova e San Valentino, ma anche di strutture psichiatriche, come la Samadi e Villa Maria Pia. La maggior parte si avviano a trovare un accordo tra le parti, altre, come la Samadi di Roma, ancora non vedono la luce. “Questa storia del contratto è stata una doccia fredda. Non si tratta solo del centinaio di euro in più al mese, il problema è che sono 14 anni che aspettiamo e non abbiamo ottenuto niente”, dice Roberto, operatore socio sanitario nella residenza psichiatrica Samadi, nonché delegato Cgil. I 154 euro in più, la “ricompensa” prevista per il personale dipendente delle strutture sanitarie private accreditate del nostro Paese, al momento, nella sua busta paga non ci saranno, nonostante il personale sia stato messo a dura prova dalla pandemia di Covid 19.
“Il momento più difficile – spiega – da nove mesi a questa parte, è stato quando i pazienti non hanno più potuto vedere i loro familiari a causa del Coronavirus. Si può solo immaginare quanto possa essere complessa un’operazione del genere con dei pazienti psichiatrici e con famiglie che conoscono bene tutte le difficoltà dei loro cari, ma non possono assisterli. Madri e figli si potevano vedere solo attraverso un vetro e noi eravamo il loro tramite”. Nel frattempo “buona parte della forza lavoro più giovane ha preferito spostarsi in altri posti, magari a trattare pazienti Covid, pur di avere la sicurezza di uno stipendio degno di questo nome. Con 154 euro in più al mese non raggiungo comunque la stabilità che un lavoratore dovrebbe avere dopo 34 anni di servizio”, chiarisce Roberto.
Carlo Pisani, avvocato della Samadi, fa presente che “il rinnovo è stato firmato dall’Aiop, l’associazione di categoria della sanità privata che raggruppa gli ospedali per acuti. La Samadi è uscita dall’Aiop ben dieci anni fa ed è una Rsa”. Pertanto è legittimata a non siglare il nuovo contratto. “La trattativa è ancora in corso e c’è la volontà di mantenere tutto quello di cui hanno goduto fino a oggi”. Aspettare un miglioramento per anni e ritrovarsi con lo stesso trattamento, però, non sembra proprio una conquista. L’unica possibilità però secondo il legale della struttura sarebbe “una delibera regionale in cui la Regione Lazio si impegna ufficialmente a coprire, almeno in parte, il costo dell’aumento“. Eppure la delibera c’è, è datata 15 settembre e si parla di “apposito provvedimento di impegno di spesa ai fini dell’effettivo riconoscimento dell’importo corrispondente al 50% degli oneri sostenuti”. La domanda sorge spontanea: perché, se ci sono tutti gli elementi per raggiungere un accordo, ancora non si è trovata un’intesa? In mezzo a questo braccio di ferro ci sono i lavoratori, gli stessi che a marzo chiamavano eroi.