Ogni cigolio lo fa tentennare. Quel fremito simile a due cavi d’acciaio tagliati a metà che sfregano l’uno sull’altro. Per poi premere sulla pelle, stridere, lasciare quei solchi nella carne. “Ne ho tre sulla pancia”, confessa Mudi, ragazzo siriano di 20 anni arrivato a Beirut due anni fa, la voce strozzata e le mani aggrappate alla camicia nera. Quando suo padre, uno Sheikh di Aleppo, ha scoperto che il figlio è omosessuale si è riempito le mani con una mazza di ferro e l’ha massacrato. Prima i colpi sul corpo, poi lo sfregio sul basso ventre. Le grida, le imprecazioni, l’arrivo della madre, la porta che si apre, Mudi nudo a terra, la pozza di sangue. “Mi sono dovuto salvare da solo”. Perché, per la famiglia, lui è “il reietto”. La sconfessione. “Quello da uccidere e ripudiare”.
I suoi fratelli lo costringono a lavorare nell’officina vicino casa, per “rieducarlo”, perché possa imparare a comportarsi “come ogni vero uomo dovrebbe fare”. Ma gli occhi di Mudi, tra motori da riparare e carrozzerie da riverniciare, sono tutti lì, fermi su quelle gambe ben salde laggiù, quella schiena piegata in avanti così vicina a lui, quelle braccia tornite lassù. Come punizione, testa e sopracciglia rasate, e 45 giorni dentro uno scantinato senza mangiare. “Mio fratello maggiore mi ha detto: ‘Potrai uscire solo quando ti saranno ricresciuti i capelli e tutte le sopracciglia’”.
La violenza risveglia la paura. E poi la consapevolezza, la fuga, l’arrivo in Libano dove l’omosessualità, però, è illegale. Dove l’articolo 534 del Codice Penale punisce fino ad un anno di carcere i rapporti sessuali che, come cita il testo, “contraddicono le leggi della natura”.
Dove qualsiasi sospetto di “non conformità” rimane in balia del giudizio dei potenti. Non c’è spazio per il libero arbitrio, tra l’asfalto di Beirut – tutto checkpoint e uomini in divisa – ma controllo, biasimo, condanna. Mormorio tra stralci di vita sospesa. Occhiate. Provocazioni. Domande. Mudi stava tornando a casa quella sera di due anni fa, come sempre a piedi, quando un soldato, tra le vie di Tariq al-Jdideh – quartiere popolare, a maggioranza sunnita, nel sud della città, spesso teatro di scontri armati tra le fazioni rivali della zona – gli ha sbarrato la strada dopo averlo fatto indietreggiare con la canna del fucile appoggiata sul petto. “Mi ha chiesto: ‘Sei siriano?’. E poi, mi ha urlato addosso: ‘Perché porti l’orecchino?’”. Un pendente, color bronzo, sull’orecchio sinistro. “Me l’ha strappato via con forza, fino a farmi sanguinare”. Il lobo lasciato a metà, il dolore, l’umiliazione. “Mi ha colpito in testa più e più volte. Un pugno, poi un altro ancora. Sono caduto a terra, mi ha sputato in faccia e ha detto: ‘Vai a farti fottere nel tuo paese, frocio’”. La maldicenza, la lingua molesta, la repulsione. Perché Mudi, e chi come lui, non è solo omosessuale, ma anche un rifugiato. Gente che porta un doppio fardello, vittima di un duplice stigma, che combatte una doppia discriminazione sistemica. Quella che “ti reputa sbagliato solo per come sei e gongola nel vederti prostrato”.
E poi, il ghigno, la “vittoria”, le manette. L’arresto. Due giorni passati dentro una cella gelida insieme ad altre quaranta persone. Sconosciuti. Occhi vuoti e volti senza nome. Corpi anonimi ammassati l’uno sull’altro in uno spazio ristretto, cupo, angusto, dove trasuda sangue e sudore, e si trascina l’assillo. Al “perché sono qui?”, che rimbomba nella mente di Mudi, risponde avida l’insolenza. La ragione si arrende all’incertezza mentre ogni speranza affoga nell’inquietudine. Perché più volte al giorno, tra sbarre e cemento, si consuma il torto più grande. La tortura. Prima verbale, e poi fisica. Prima le insinuazioni, poi le molestie da parte degli agenti. Prima, i “ti piace succhiare?”, “ma quanto godi nel farti scopare da un uomo?”, “le ragazze non ti eccitano?”. Poi, “le mani addosso, gli schiaffi in faccia”, la sospensione del giudizio, “jeans e mutande tirati giù”, la sopraffazione, il disagio, la prepotenza, “il suo membro dentro di me”. Lo smarrimento e il disagio. L’obbligo e i sensi di colpa. La morte dell’Io nell’affermazione dello stupro. Nell’apnea della vita, sull’orlo della vergogna, c’è tutta la bestialità umana.
Non sono servite a nulla le dichiarazioni dell’Associazione degli Psichiatri libanesi che, per ben due volte, nel 2013 e nel 2016, ha affermato che “l’omosessualità non è un disturbo mentale”. Non sono bastati cinque giudici e la loro opposizione all’articolo 534 del Codice Penale in cinque sentenze. Non è bastata una legge, quella contro la tortura, approvata dal Parlamento libanese nel 2017. Perché, in fondo, “sono solo provvedimenti di facciata – come afferma Rasha Younes, ricercatrice presso la sede di Human Rights Watch di Beirut – mosse strategiche per migliorare l’immagine del Paese agli occhi della comunità internazionale”. Ma la realtà è ben diversa. “Le autorità giudiziarie insistono nell’ignorare le disposizioni di legge – precisa l’analista – e le Forze di Sicurezza, ovvero le Forze di Sicurezza Interna, la Sicurezza Generale e le Forze Armate Libanesi, continuano con l’uso indiscriminato della violenza, torturano e, poi, eliminano documenti, scrivono report fittizi”. L’unico modo che hanno per uscirne “puliti”. Alla bolsa retorica dei piccoli passi avanti, alle vuote astrazioni del “faremo”, vince la prepotenza dello Stato. Che cerca presunti colpevoli da incarcerare, uomini da interrogare, corpi da seviziare. Che umilia, invece di proteggere. “Da vittima, diventi carnefice”, sottolinea Sahar Mandour, portavoce di Amnesty International. “Non puoi denunciare o chiedere protezione – puntualizza – perché esporsi significa rivelare il proprio orientamento sessuale, la propria identità di genere, che equivale ad una condanna garantita”.
Negli ultimi quindici anni non c’è stato giorno in cui non sia avvenuto un raid, un fermo, o un arresto. E, solo nell’ultimo anno, la violenza nei confronti della comunità Lgbtq è aumentata del 300%. “Il pensiero di camminare da solo, per strada, mi terrorizza – ammette Mudi con lo sguardo fisso alla finestra – perché sei, e sempre sarai, il loro bersaglio”. Degli uomini di Stato, della gente che incroci per le vie della città, borghesi, proletari, cristiani, musulmani, giovani, meno giovani, facce sconosciute pronte ad additarti. Perché, nell’anatomia del disonore, non c’è solo la legge a condannarti, ma anche la società patriarcale con le sue giustificazioni morali, lo spettro familiare con le sue verità inoppugnabili e le sue intimidazioni. Ci sono messaggi diretti di morte. C’è il telefono che squilla e Mudi che non risponde, ci sono numeri bloccati, notti insonni e appartamenti cambiati. C’è il timore di essere trovato, l’angoscia di essere preso, il terrore di essere ucciso. Il pianto convulso, il riflesso allo specchio, il disamore. Perché l’insistenza della memoria preme anche ora sul nervo scoperto della sessualità – fedeltà e congruenza – rammentando un passato sempre presente che, seppur lontano dalle pulsioni della coscienza, spinge al tormento. Il cielo è cambiato, il vento è più fresco, la stagione delle piogge è vicina. “Guarda – impreca mentre riempie di vestiti, ancora una volta, la sacca nera appoggiata sul letto – questa è vita?”. Sostare. Lasciare. Ricercare. Il domani – lotta tra determinazione e incertezza – inciampa ancora nel torpore dell’indulgenza.