La recente liberazione di Chico Forti, il velista e produttore televisivo trentino, mi ha riportato alla mente Fuga di mezzanotte (’78), il grande film di Alan Parker, sceneggiato da Oliver Stone, che racconta la storia vera di Billy Hayes, studente hippy americano arrestato nel 70 all’aeroporto di Istanbul per possesso di hashish e finito per cinque anni in tre carceri turche dall’ultima delle quali riuscì a evadere dopo aver vissuto l’inferno (almeno nel film, visto che Hayes dichiarò, trent’anni dopo, che Parker aveva esagerato un po’ le cose).

La differenza è che Hayes era colpevole (anche se gli diedero un esagerato ergastolo) e invece Forti, pure lui condannato al carcere a vita, si è sempre dichiarato innocente dell’omicidio dell’australiano Dale Pike, il cui cadavere seminudo venne rinvenuto a Sewer Beach, Miami, il 16 febbraio ’98. E, se non è stato Forti, dev’esserci ancora in giro un assassino che ammazzò Pike con una calibro 22.

“L’avvocato di Forti, Joe Tacopina – scrive Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera – ha presentato istanza al Governatore della Florida, il trumpiano Ron DeSantis, per sollecitare l’applicazione della Convenzione di Strasburgo del 1983 che consente a un detenuto condannato in via definitiva di scontare la pena nel proprio Paese. La Farnesina e l’Ambasciata italiana a Washington hanno moltiplicato le pressioni sul Dipartimento di Stato, guidato da Mike Pompeo e sull’Amministrazione della Florida. Fino a ieri, quando il Governatore DeSantis ha accolto l’istanza”. A rigor di legge, Forti, non appena tornerà in Italia, potrebbe essere re-incarcerato, ma si tratta di un’ipotesi assai improbabile.

Se a lui, dopo quasi vent’anni nell’istituto di pena di Everglades, è andata (si fa per dire) bene, molti altri italiani-prigionieri in giro per il mondo se la vedono brutta. Oggi, secondo i dati pubblicati dalla Farnesina in un volume del novembre 2019, Guida pratica all’assistenza consolare per i detenuti italiani all’estero, sarebbero circa 2.100. Il condizionale è d’obbligo perché di molti si sono perse le tracce (già nel 2015 la senatrice grillina Paola Donno aveva presentato un’interrogazione “per fare luce sul fenomeno, ricordando il dramma dimenticato di molti connazionali. Privati dell’assistenza di un legale o di un interprete, in alcuni casi. Altre volte abbandonati nella totale assenza di igiene e dignità”). Secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, fondata da Katia Anedda, che si occupa di aiutare gli italiani detenuti all’estero, sono invece 3278 gli italiani dietro le sbarre fuori dal proprio Paese, soprattutto nelle Americhe (472). “Non entriamo mai nel merito delle vicende processuali – aveva spiegato qualche tempo fa Anedda presentando a Milano il suo libro Prigionieri dimenticati, Historica Editrice – Non ci interessa se una persona è colpevole o innocente, è importante che vengano rispettati i suoi diritti“. E questo è un punto molto importante da sottolineare (il caso, sia pur inverso, di Cesare Battisti, docet). Non basta essere italiani per essere innocenti.

Risolto quello di Forti, ci sono ancora tanti casi da affrontare. Ma non quello, purtroppo, di Simone Renda, un ragazzo di Lecce morto in carcere in Messico pochi anni fa, solo per citare uno dei molti avvenimenti funesti.

Grande soddisfazione per la liberazione di Chico Forti da parte di chi si è battuto da sempre per ottenerne la liberazione: lo zio Gianni che lo ha sempre ritenuto innocente, i giornalisti di Radio 105, le Iene e molti altri che lo hanno sempre sostenuto. Perché, allora, i sospetti sull’omicidio di Dale Pike portò all’arresto di Forti?

C’era di mezzo una compravendita di un hotel di Ibiza, il mitico Pikes, luogo amato dai supervip fondato e gestito da Tony Pike, scomparso lo scorso anno e padre della vittima, re dell’edonismo a Ibiza, oggetto di gossip per i suoi flirt con George Michael e Freddie Mercury, Grace Jones e Kylie Minogue? Quel che è certo che il figlio Dale fu ucciso a Miami mentre stava trattando la vendita dell’hotel di famiglia a un gruppo di acquirenti rivelatisi poi dei truffatori. E Chico Forti, amico suo, venne tirato dentro al caso. Non è ben chiaro perché, a oggi. Tanto più che dall’omicidio alla condanna a “fine vita” intercorsero ben due anni di processo e Forti – afferma il suo avvocato – non è mai stato chiamato a testimoniare. Persino l’opinione pubblica americana ha avuto dubbi sulla colpevolezza di Chico. Per di più, la legge degli Usa prevede che si possa riaprire un processo solo “al verificato accertamento di nuove prove di cui non si poteva essere a conoscenza all’epoca del processo e in grado di modificare gli esiti della sentenza”.

Gli interventi di almeno tre ministri degli Esteri italiani succedutisi nei vari governi nulla hanno potuto. Fino ad oggi. Le Iene, che si sono occupate del caso in tv, hanno ipotizzato che Forti sia rimasto incastrato da un documentario che lui stesso girò all’epoca dell’omicidio di Gianni Versace, ovvero a luglio del ’97, quando lavorava come produttore televisivo, un documentario che palesava ipotesi avverse alla ricostruzione effettuata dalla polizia sul ritrovamento del cadavere di Andrew Cunanan, il serial killer autore dell’omicidio dello stilista calabrese. Ammettere un clamoroso errore giudiziario non avrebbe certo fatto bene al sistema giudiziario Usa.

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