La difesa dei quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni, il sostegno alla falsa pista dei cinque rapinatori, le accuse ai pm italiani, ipotesi di complotto e, infine, anche un giudizio sul ricercatore di Fiumicello che durante la permanenza in Egitto avrebbe tenuto un comportamento “non consono” e che per questo è stato messo “sotto osservazione” dai servizi segreti di Abdel Fattah al-Sisi. C’è tutto questo nell’ultimo comunicato diffuso dalla Procura del Cairo che si occupa del caso di Giulio Regeni, accusata dai pm romani di scarsa collaborazione nelle indagini. In serata la Farnesina ha risposto che “ritiene che quanto affermato dalla procura generale egiziana relativamente al tragico omicidio di Giulio Regeni sia inaccettabile” e “nel ribadire di avere piena fiducia nell’operato della magistratura italiana, continuerà ad agire in tutte le Sedi, inclusa l’Unione europea, affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere”. Il ministero, si legge ancora nella nota, “auspica che la procura generale egiziana condivida questa esigenza di verità e fornisca la necessaria collaborazione alla procura della Repubblica di Roma”.
Il procuratore generale, Hamada Al Sawi, come già dichiarato nella nota congiunta scritta con gli omologhi italiani del 30 novembre scorso, ha ribadito in un comunicato che “per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto“. Il documento diffuso dal Cairo torna a sottolineare che il Procuratore “ha incaricato le parti cui è affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare” i responsabili. Questo perché si “esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso”, dei quali non è stata ancora fornita ai colleghi italiani, nonostante la rogatoria del 2019, l’elezione di domicilio degli indagati.
Una vera e propria accusa al lavoro svolto dai magistrati di Roma, con i testa il procuratore Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco. “Tutto ciò che l’autorità italiana ha evocato” circa “i quattro ufficiali e sott’ufficiali del settore della sicurezza nazionale egiziana è basato su false conclusioni illogiche ed è contrario a tutti i fondamenti giuridici internazionali e ai principi del diritto che necessitano la presenza di prove certe nei confronti dei sospettati”, scrive infatti Al Sawi. “Le autorità italiane hanno fatto il collegamento fra prove ed atti in maniera scorretta“, circostanza “che ha causato una percezione difettosa degli eventi e una perturbazione della comprensione della natura del lavoro degli ufficiali di polizia, delle loro procedure e della natura dell’inchiesta compiuta sul comportamento della vittima”, aggiungono.
Ma la Procura egiziana si spinge più in là, confermando di concentrare le proprie attenzioni sull’ipotesi che a sequestrare e ammazzare Giulio Regeni sia stata una banda di cinque rapinatori uccisi in circostanze sospette nel marzo 2016. Intervento, quello delle forze di sicurezza egiziane, a cui seguì il ritrovamento dei documenti e di presunti effetti personali appartenenti al giovane friulano nella casa di una delle persone uccise. Il problema è che questa operazione si è poi dimostrata essere una messinscena architettata, si presume, dall’intelligence egiziana per depistare le indagini che invece portano proprio ai vertici dei servizi del Cairo, dato che nel giorno in cui Regeni è stato rapito, il 25 gennaio 2016, il capo della presunta banda si trovava lontano dal Cairo, come dimostra un aggancio del suo cellulare a una cella ad Awlad Saqr, a nord della capitale, fin dopo l’orario della sparizione di Giulio. “Vista la morte degli accusati – scrive infatti la Procura egiziana – non c’é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo”.
I pm si contraddicono, tra l’altro, quando forniscono la loro interpretazione politica della vicenda Regeni. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura accredita infatti la tesi che imprecisate “parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare” il caso di Giulio Regeni “per nuocere alle relazioni” tra i due Paesi. Ciò, sostengono, sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta sia del giorno del sequestro sia di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto proprio durante una missione economica italiana al Cairo, si sostiene nel testo. Ma se fosse stata opera di una semplice banda di rapinatori, non si spiega perché questi avrebbero dovuto organizzare una messinscena “per nuocere alle relazioni” tra Italia e Egitto.
La Procura sostiene che “sconosciuti potrebbero aver sfruttato” i movimenti di Regeni “per commettere il crimine, scegliendo il 25 gennaio (anniversario della rivoluzione del 2011, ndr) perché sapevano che la sicurezza egiziana era occupata a garantire la sicurezza delle istituzioni dello Stato”. Il responsabile “avrebbe dovuto rapirlo e torturarlo affinché il crimine fosse attribuito alla sicurezza egiziana, ha gettato il suo corpo a lato di una struttura importante appartenente alla polizia e in coincidenza con la visita in Egitto di una delegazione economica” italiana, si sostiene nel testo con implicito riferimento alla missione condotta dall’allora ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. “Tutto ciò come se il criminale avesse come scopo quello di informare il mondo intero della sua morte e di attirare l’attenzione” su di essa, viene aggiunto. “Ciò prova alla Procura generale che parti ostili all’Egitto e all’Italia vogliono sfruttare questo incidente per nuocere alle relazioni fra i due Paesi nel momento in cui questi rapporti avevano avuto ultimamente sviluppi positivi. Queste parti sono anche sostenute da media noti per la loro istigazione dei conflitti” e per questo la Procura, sulla base delle “circostanze di questo caso e alla luce di questa analisi, ritiene che ci sia un altro lato che non è stato ancora svelato dalle inchieste, come anche l’autore” del crimine.
I magistrati si spingono fino a giudicare il comportamento tenuto da Giulio Regeni nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, definendolo ”non consono al suo ruolo di ricercatore” e per questo posto “sotto osservazione” da parte della sicurezza egiziana “senza però violare la sua libertà o la sua vita privata”. ”Tuttavia – aggiungono – il suo comportamento non è stato valutato dannoso per la sicurezza generale e, quindi, il controllo è stato interrotto”.