Società

Il suicidio ci riguarda, non nascondiamo la testa sotto la sabbia

Oggi ho visto un video in cui l’attore Kevin Spacey lancia un appello per prevenire il suicidio. Nella registrazione afferma che lui sa per esperienza cosa si prova e tenta di dare il suo contributo.

Durante le festività natalizie si assiste tutti gli anni ad un aumento dei suicidi. Le ipotesi più accreditate riguardano l’idea che chi soffre per disturbi depressivi avverta in questo periodo ancora maggiormente la sua incapacità di essere felice o semplicemente sereno. Di fronte a esternazioni di affetto e vicinanza emotiva, invece di provare un senso di conforto, chi è in difficoltà, sentirebbe ancora più forte la propria mancanza di emozioni empatiche. Quella sensazione di incapacità di amare che caratterizza lo stato di angoscia depressiva si acuirebbe, portando l’individuo alla determinazione di essere inutile e dannoso.

Le statistiche ci dicono che ogni anno viene attuato un suicidio ogni 8/10 mila persone, a seconda dei paesi. I tentativi di suicidio sono calcolati da dieci a venti volte di più rispetto ai suicidi. Nei giovani sotto i venti anni il suicidio, dopo gli incidenti stradali, è la prima causa di morte. Inoltre, purtroppo, dobbiamo ricordare che molti suicidi sono mascherati da incidenti o fatalità, ma nella realtà, pur non rientrando nelle statistiche, erano accuratamente programmati. Esistono, infine, dei suicidi prolungati nel tempo attraverso l’uso di droga, alcolici, anoressia e bulimia, hikikomori (tendenza a rimanere chiuso in casa senza dedicarsi ad alcuna attività), partecipazione ad attività violente e pericolose in modo continuo e compulsivo.

L’adolescenza, che attualmente nella nostra società è estremamente prolungata, e la senescenza sono le età in cui molte persone pensano seriamente a togliersi la vita.

Dobbiamo avere la consapevolezza che il suicidio ci riguarda e non nascondere la testa sotto la sabbia. Se facciamo un rapido calcolo in 70/80 anni di vita, viste le percentuali che ho prima menzionato, su cento persone che conosciamo o amiamo una si suiciderà e 10 tenteranno di farlo. Si tratta di numeri davvero spaventosi!

Per questo tutti dovremmo entrare nell’ottica di cercare di prevenire la sofferenza che può portare a questo tragico gesto. Le strategie da porre in atto sono legate alla capacità di ognuno di noi di far sentire importante l’altro, di fargli percepire la nostra vicinanza emotiva. Tanto più, in un momento come questo, in cui vigono regole di distanziamento sociale, un messaggio, una parola di affetto, un segnale di presenza e partecipazione emotiva sono fondamentali. Come corollario occorre cercare di togliere la stigmatizzazione sociale negativa alla sofferenza psichica. Chi soffre per patologie depressive non è un incapace, un alieno o peggio una persona che non ha “spina dorsale”. La sofferenza mentale è, alla pari di tutte le altre patologie, qualcosa che non siamo in grado di controllare.

Aiutare le persone ad accettare l’idea di essere malate e non, come dicono alcuni, degli incapaci, permette a costoro di chiedere aiuto e farsi curare. Attualmente esistono cure molto efficaci che, in alcuni mesi, possono guarire oltre il 90% delle forme depressive, sia con l’ausilio di farmaci che di approcci psicoterapici. Anche quel dieci per cento che non avrà una guarigione completa, comunque, potrà stare meglio e progettare percorsi più prolungati di assistenza e cura. La cosa peggiore che possiamo fare e che troppo spesso diviene la goccia che fa traboccare il vaso è la colpevolizzazione.

Una ragazza mi racconta che quando stava male la madre l’apostrofava con epiteti come: ”Sei una cogliona! Non stare lì a crogiolarti. Alzati, vai fuori con le amiche. Vai al lavoro. Sei una sfaticata!”. Presumibilmente questa mamma lo faceva per spronarla. Forse il suo intento era positivo ma, senza rendersene conto, faceva ancora più sprofondare questa ragazza nell’angoscia. La ragazza mi dice: “Mi sento come una persona che ha una gamba rotta e a cui tutti dicono che per guarire deve mettersi a camminare. Possibile che nessuno capisca che io non sono in grado di fare anche le cose minime. Sono proprio un’incapace”.

Le persone più accanite a bollare come incapaci e sfaticati coloro che soffrono di disturbi depressivi sono soprattutto coloro che hanno una intrinseca fragilità. Proprio perché avvertono di essere anche loro in difficoltà, inconsciamente erigono un muro, fatto di negazione della sofferenza mentale: “Sono tutte balle! Seghe mentali! Si tratta di sfaticati che dovrebbero ricevere qualche ceffone, un calcio nel sedere”. In questo modo, inconsciamente, minimizzano la sofferenza derublicandola a svogliatezza per sentire meno la paura di poterci piombare dentro. E’ come se dicessero a se stessi: “A me non capiterà perché sono deciso e determinato e ho voglia di stare bene”.

Accettare la nostra fragilità, come pare avere imparato l’attore Kevin Spacey in questi anni di difficoltà, legate a vicende giudiziarie, è il presupposto per capire e poter poi, conseguentemente, aiutare gli altri.