Se l'obiettivo è far sì che muoiano meno persone possibile, secondo lo scrittore il piano d'azione deve puntare a far durare l'epidemia il meno possibile. E per fare questo andrebbe vaccinato prima chi per lavoro incontra molta gente e rischia di diventare un superdiffusore: medici di base ma anche camerieri, controllori, autisti di pullman, baristi, oltre che personale ospedaliero e delle residenze per anziani. L'idea andrebbe studiata con un approccio quantitativo
Usereste una bomba per spegnere un incendio? A prima vista, l’idea può sembrare sommamente idiota, ma in alcune situazioni di emergenza la cosa può funzionare. Per spegnere gli incendi dei pozzi petroliferi, per esempio, la soluzione adottata di solito dagli ingegneri è di minare la base dell’incendio con una carica esplosiva la quale, esplodendo, sottrae ossigeno e quindi comburente alle fiamme, estinguendole per via chimica. Soluzioni simili sono state adottate recentemente anche per altre situazioni: in Scandinavia, per esempio, due anni fa sono stati usati dei caccia militari per bombardare, letteralmente, gli incendi boschivi con ordigni a guida laser.
Usare l’intuito, in situazioni complesse, può portare a giudicare come completamente folli idee che, nella realtà, possono funzionare. Oppure, a giudicare razionali delle procedure che, in realtà, potrebbero essere meno efficienti di altre. Come la decisione di vaccinare la popolazione contro il Covid-19 partendo dalle fasce di età più elevate e di andare a scendere progressivamente. L’obiettivo, qui, è quello di proteggere le categorie più a rischio: ma ho l’impressione, qui, che si sia confuso l’obiettivo con il piano di azione.
Confondere l’obiettivo con il piano d’azione non porta necessariamente a sviluppare un buon piano di azione; non so voi, ma se a un allenatore di calcio chiedeste “che tattica userete per vincere il match?”, e se questo rispondesse, senza intenzione di fare pretattica né sarcasmo, “cercheremo di fare un gol più degli altri“, io cercherei un altro allenatore o mi preparerei per la batosta.
L’obiettivo è, e deve restare, quello di proteggere le categorie più a rischio – ma il modo migliore di farlo potrebbe non essere vaccinare loro. A mio avviso, occorre prendere seriamente in considerazione un’altra possibilità: vaccinare le categorie di persone che maggiormente contribuiscono a diffondere il virus, non a subirne gli effetti. Questa idea è stata proposta recentemente dal fisico ungherese Albert-Laszlo Baràbasi (uno dei fondatori della teoria delle reti) ed è basata sul fatto che, nella rete di rapporti interpersonali che ognuno di noi si crea, esistono dei veri e propri “hub” – fulcro, in inglese – ovvero persone che interagiscono con grandi quantità di altri esseri umani.
L’intero settore dei trasporti è basato sul concetto di hub, per cui esistono pochi grandi collettori – che so, le stazioni di Milano, Bologna, Firenze, Roma Termini e Napoli Centrale – e una miriade di stazioni di media e piccola capacità per coprire praticamente tutto il territorio nazionale. Per andare da Pisa a Voghera, raramente uno cerca un diretto Pisa-Voghera: da Pisa va a Firenze, lì prende un bel treno veloce che lo deposita a Milano, e da Milano prende un locale per Voghera. In qualsiasi settore di spedizione dei messaggi, bastano pochi hub per garantire una copertura mondiale: ne consegue che bloccare o disattivare anche uno solo di quegli hub crea enormi difficoltà nella capacità di movimento dei viaggiatori.
La stessa cosa potrebbe, da un punto di vista di rete, succedere se al posto dell’essere umano mettiamo il virus: disattivare, vaccinando, gli hub delle relazioni umane potrebbe rallentare in maniera decisiva la diffusione del virus. In questo caso, le persone non dovrebbero più essere suddivise in categorie a seconda dell’età, ma a seconda del numero di persone che fisicamente frequentano e dall’ambiente in cui le incontrano. Anche tra le persone, infatti, esistono gli hub. Il numero di esseri umani con cui interagiamo non è una variabile che cambia in modo omogeneo: la maggior parte di noi frequenta sempre le stesse poche persone, mentre pochissimi di noi ne frequentano una miriade.
Il cosiddetto super-spreader è uno di questi: come il cosiddetto “paziente zero” statunitense, un avvocato di New Rochelle che nel giro di un weekend, a partire dal 21 febbraio, fra un funerale, un bar-mitzvah e un compleanno, ha incontrato fra le 800 e le 1000 persone. Risultato? I contagi nel distretto di New Rochelle a partire dal 26 febbraio sono letteralmente decollati – erano più di 50 i casi di Covid direttamente riconducibili a questo paziente, e si presume che il focolaio della contea di Newchester, coinvolgente più di diecimila persone, abbia avuto origine da questa singola persona.
Come dimostrato alcuni anni fa, in maniera elegantissima, da Alessandro Vespignani, gli hub sociali sono sia degli attrattori che dei diffusori: ovvero, non solo è facilissimo che infettino gli altri se malati, ma è anche facilissimo che, prima, si infettino, e quindi è più probabile che siano infetti rispetto alla media della popolazione. Il numero di persone con le quali entriamo in contatto, quindi, è fondamentale per classificarci come superdiffusori. Non è una catalogazione immediata da fare, ma ci sono alcune caratteristiche che aiutano: il lavoro che una persona fa, per esempio.
I medici – intendo i medici di base – sono il primo esempio che mi viene in mente, ma ce ne sono molti altri: i camerieri, i controllori, gli autisti di pullman, i baristi. Dipende non solo da quante persone uno incontra, ma anche da quanto tempo passa in loro compagnia, e in quale ambiente; ma chiunque faccia un lavoro al pubblico è, probabilmente, un potenziale diffusore molto più di un manager che lavora da remoto o di un pensionato che vede solo chi gli porta la spesa. Ovvio che, in queste categorie, ricadano le persone che vivono per forza di cose in una comunità: medici e personale ospedaliero, e ospiti e personale delle residenze per anziani. Ma se il nostro obiettivo è far sì che muoiano meno persone possibile – e francamente qualsiasi altro obiettivo non lo voglio prendere in considerazione – credo che il giusto piano d’azione in cui tradurlo sia ‘far durare l’epidemia il meno possibile’. E per fare questo, vaccinare la popolazione più a rischio magari non è la scelta ideale.
Un caveat necessario, anche se pleonastico, per concludere questo articolo: quello che propongo è di studiare seriamente l’idea, non di applicarla. Non si mette su un piano di salute pubblica perché uno scrittore di gialli si è alzato la mattina e ha avuto un’idea brillante. Quando si parla di sistemi complessi, si parla necessariamente di studiare la situazione da un punto di vista quantitativo: il che significa calcoli, simulazioni al computer, stime da parte di esperti nel campo dell’epidemiologia. Abbiamo visto, in questi ultimi mesi, vari sapienti nei campi più disparati della cultura ergersi a virologi: ecco, in questo tipo di problema è invece più affidabile uno studio fisico o informatico che non virologico.