È da tempo immemore che la Scuola si ritrova a recitare la parte di vittima designata di un grande paradosso a cui l’hanno condannata tutti i governi degli ultimi cinquant’anni. Sì, perché da una parte essa è sempre stata descritta, con lusinghieri toni retorici, come l’istituzione cardine nella formazione di quelle che saranno le classi dirigenti del futuro. Dall’altra, quando dal piano aleatorio e insidioso della retorica ci si trasferisce su quello più prosaico della politica concreta, la Scuola (e l’istruzione in genere) è stata trattata come l’istituzione su cui concentrare tutti i tagli indiscriminati, quella da colpire con sistematico spirito sciagurato ogni qual volta ci fossero da recuperare risorse da destinare ad altri comparti.
Ciò è tristemente confermato dai dati più recenti, da cui si evince che l’Italia oggi spende mediamente il 3,93% del proprio Pil a favore di scuola e università (ben al di sotto della media dei paesi Ocse, di poco superiore al 5%). Se poi ci spostiamo su un livello più ampio ma comunque attinente, troviamo l’Italia come fanalino di coda fra tutti i paesi industrializzati (ben al di sotto anche di molti meno industrializzati) nelle risorse impiegate per la cultura e la formazione in generale.
Il risultato è desolante: gli studenti italiani sono agli ultimi posti (davanti soltanto a Grecia e Lussemburgo, in Europa) in lettura e comprensione di un testo scritto, mentre persino peggiore è il livello medio nelle scienze matematiche, fisiche e naturali. Senza contare che, pur avendo fatto ben poco per contribuire alla formazione di nuove generazioni in grado di resistere a quel mondo dei balocchi (e degli allocchi) che sono le tecnologie digitali (in cui tutti o quasi sono impegnati a comportarsi come un grande gregge mediatico affetto da narcisismo compulsivo, omologazione imperante e condivisione di contenuti culturalmente, cognitivamente e socialmente irrilevanti), quegli stessi dati ci raccontano che soltanto il 34% dei nostri ragazzi fra i 16 e i 19 anni possiede competenze digitali elevate, contro il 53% della media europea.
Se a tutto questo aggiungiamo che siamo fra i paesi europei col più alto tasso di analfabeti funzionali (persone che sanno leggere, ma non capiscono ciò che leggono), abbiamo la misura di un quadro lugubre.
Ma il guaio è che quando si parla di istruzione il cerchio tende a chiudersi. Sì, perché quegli stessi studenti usciti da una realtà scolastica sempre più impoverita e degradata, spesso e volentieri ce li ritroviamo molti anni dopo a ricoprire cariche importanti anche a livello di amministrazione e governo del Paese. Anzi, tenendo conto che l’Italia non brilla neppure per valorizzazione del merito e mobilità sociale, bisogna sapere che spesso a finire in quei ruoli centrali sono i figli delle famiglie più ricche e privilegiate, non certo i migliori.
Inutile dire che proprio oggi che il Paese è affetto da una crisi sanitaria che si aggiunge (aggravandole) a quella culturale, economica e sociale, il rischio di una politica non all’altezza del gravosissimo compito è quanto mai alto. Sto parlando di quella stessa politica che ha deciso di intestardirsi per far tornare gli studenti delle superiori a scuola fin dal 7 gennaio, temo soltanto a fronte di argomentazioni retoriche e di convenienza. E dire che basterebbero dei ragionamenti basilari per capire che la scelta è prematura e rischiosa.
Ne avanzo alcuni. Ci siamo accorti che il tasso dei contagi è tornato a salire proprio da quando sono state riaperte le scuole, a settembre? Siamo consapevoli che in tutta Europa la situazione continua a essere drammatica, con la cosiddetta “variante inglese” del virus che sta costringendo la Gran Bretagna al terzo lockdown? È chiaro a tutti che il tasso di contagio resta al 13,8%, cioè molto più alto di quanto vorrebbe la comunità scientifica per ripristinare condizioni graduali di vita “normale”? Siamo consapevoli che ancora dovremo vedere gli effetti delle vacanze natalizie?
Ma soprattutto, perché rischiare di gettare alle ortiche tutti gli enormi sacrifici fatti fin qui, sacrifici di vite umane, di imprenditori in grave crisi, di commercianti e artigiani spesso rovinati da restrizioni sociali lunghe e prolungate, soltanto per la fretta di riaprire le scuole quando ancora i vaccini non hanno avuto modo di confermare gli auspicati effetti benefici? A fronte di tutto questo, non vedo una sola ragione degna di questo nome per riportare gli studenti in presenza, quando per giunta tutte le altre attività continuano a subire delle rigorose (e secondo me opportune) restrizioni.
Siamo sicuri che tutta questa fretta immotivata non si basi sulla questione trita e ritrita con cui ho cominciato il post, cioè il fatto che si torna a utilizzare la Scuola come arma di propaganda, di convenienza politica e di retorica, incuranti di chi in quella realtà ci vive davvero (e cioè professori, studenti, personale tecnico-amministrativo, con le rispettive famiglie)?
Una politica davvero nuova e che voglia lasciarsi il passato alle spalle dovrebbe tornare a investire in termini di risorse e progetti concreti sulla Scuola, non continuare a strumentalizzarla per meri interessi di convenienza politica. Questo era il passato, e i risultati disastrosi li vediamo anche in questo sconsolante presente.