I progetti di Eni per il centro di cattura e stoccaggio di CO2 a Ravenna, ma anche per la realizzazione o conversione di altri impianti della multinazionale energetica spuntano, nero su bianco, nella seconda bozza del Piano nazionale ripresa e resilienza. Ergo: parte delle risorse del Recovery fund destinate alla ‘Rivoluzione verde e la transizione ecologica’ (costo stimato, 6,3 miliardi di euro) andrebbero proprio al cane a sei zampe. E così, l’ultima versione del documento datata 29 dicembre 2020, scatena lo sdegno di Greenpeace, Legambiente e Wwf: “Diverse misure sembrano scritte sotto dettatura di Eni, azienda solo parzialmente statale”. Sotto accusa due voci: i progetti di decarbonizzazione con tecnologie di Ccus (cattura, trasporto, riutilizzo e stoccaggio della CO2) che ruotano attorno alla realizzazione del più grande centro per la cattura e stoccaggio di anidride carbonica al mondo (dal piano in questione arriverebbero 1,35 i miliardi) e quelli per la produzione di combustibili alternativi o bioplastica (altri 1,35 miliardi).
LE REAZIONI – “Da mesi chiediamo un Piano Nazionale Ripresa e Resilienza ‘partecipato’ – scrivono le associazioni – per evitare un Pnrr ‘delle partecipate’, come alcune indiscrezioni delle ultime settimane lasciavano temere”, ma “siamo stati ampiamente smentiti”. Dal documento circolato nelle ultime ore emerge che solamente Eni “è riuscita a far inserire progetti di confinamento geologico della CO2 a Ravenna e presunte bioraffinerie”. “L’aspetto che riteniamo più irritante – spiega a ilfattoquotidiano.it il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani – è che parliamo di un’azienda a parziale capitale pubblico che fattura ogni anno 70 miliardi di euro. Se vuole realizzare questi impianti dovrebbe farlo con i propri soldi e non con quelli dei contribuenti europei”. Anche per Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, “queste risorse devono essere utilizzate per “una vera transizione ecologica” e non solo “a misure pseudo-compensative che hanno come obiettivo quello di consentire a Eni di non far deprezzare i propri asset, in primis il gas”.
È GUERRA SULL’HUB DI RAVENNA – Tre settimane fa la protesta di Fridays for future e della Rete per l’emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna che hanno manifestato davanti alla Regione e hanno lanciato un appello (al quale hanno aderito diverse associazioni) contro il progetto con cui Eni intende “utilizzare i propri giacimenti di gas a largo della costa ravennate per immettervi 300-500 tonnellate di CO2 ad altissima pressione” risultante da processi industriali o dall’attività degli stessi impianti dell’azienda. Le ragioni della protesta sono note: cattura e stoccaggio di CO2 sono considerati “un espediente per tenere in vita processi produttivi e di approvvigionamento energetico altamente emissivi” e “un modo per estrarre ciò che resta nei giacimenti, così da immettere sul mercato altre quantità non trascurabili di combustibili fossili”. E mentre gli investimenti potrebbero essere dirottati su altri progetti, in primis sulle rinnovabili, si paventa anche il rischio di “un progressivo incremento della sismicità nel territorio ravennate, già soggetto a significativi fenomeni di subsidenza”. Eppure, solo pochi giorni fa, è stato il vicesindaco di Ravenna, Eugenio Fusignani, a confermare la posizione dell’amministrazione comunale, favorevole alla ripresa della produzione del gas estratto in Adriatico e dei progetti di Eni legati alla CO2 e all’idrogeno.
I TRE INVESTIMENTI PER L’HUB – Di fatto, secondo quanto previsto nella bozza del Piano nazionale ripresa e resilienza, 1,35 miliardi saranno utilizzati per lo sviluppo “del primo hub di decarbonizzazione nell’Europa meridionale”, costruendo a Ravenna un sistema di cattura, trasporto e iniezione del carbonio “prodotto dal distretto industriale di Ravenna-Ferrara-Porto Marghera nonché dalla produzione di idrogeno decarbonizzato e di energia elettrica”. L’intero investimento dovrebbe completarsi entro marzo 2026. Lo stesso intervento economico copre altri due progetti: l’installazione di un impianto industriale di mineralizzazione della CO2 e un progetto legato alla coltivazione di microalghe. Secondo Legambiente “il progetto di confinamento della CO2 nei fondali marini in Alto Adriatico inserito nel Pnrr è solo un pozzo senza fondo”, che non rappresenta una vera inversione di rotta, così come l’attuale piano industriale di Eni “non è in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e rimanda le riduzioni delle emissioni di CO2 a dopo il 2030, cosa gravissima se si tiene conto che le emissioni globali dell’azienda sono superiori a quelle dell’Italia”.
ALTRI SEI INVESTIMENTI, ANCHE PER LE BIORAFFINERIE – Il secondo intervento (altri 1,35 miliardi) prevede sei investimenti. Tra questi la conversione della raffineria di Livorno in una bioraffineria per produrre HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) e la trasformazione della raffineria di Gela, anche in questo caso, in una bioraffineria con il rilancio di competitività del sito produttivo Biojet (carburante bio per trasporto aereo). “Il problema principale è nella materia prima che dovrebbe diventare carburante ‘bio’ – spiega Giannì – perché, quando parliamo di bioraffinerie, occorre tener presente che in questo tipo di processi Eni ha finora usato principalmente olio di palma proveniente soprattutto dal Sud est asiatico. Milioni di ettari di foresta pluviale sono stati distrutti negli ultimi anni per consentire l’espansione delle piantagioni provocando, oltre allo stravolgimento dell’ambiente con conseguenze devastanti sulla biodiversità, anche l’aumento di emissioni dovuto proprio al cambio di uso del suolo dei terreni riconvertiti per la coltivazione intensiva delle palme”. Il processo industriale previsto a Livorno, inoltre, “è quello descritto nella pubblicità costata a Eni 5 milioni di sanzione da parte dell’Antitrust che l’ha definita ingannevole”, ricorda il presidente di Legambiente Ciafani. Nella campagna promozionale, spiegava l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, erano stati utilizzati la denominazione “Green Diesel” e altri claim di tutela dell’ambiente per il carburante Eni Diesel+, attribuendo “vanti ambientali che non sono risultati fondati” e nonostante “il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green”. In seguito, l’Eni ha promesso di eliminare l’olio di palma dal proprio biodiesel Enidiesel+ entro il 2023. “Ad oggi, però, non è cambiato nulla nella sostanza di quel progetto” spiega Ciafani.
Una parte dei fondi previsti dal piano, poi, sarà utilizzata nella costruzione di un impianto integrato Waste to Methanol (WtM) presso la raffineria di Livorno per produrre idrogeno o metanolo da impiegare come combustibile derivato da carbonio riciclato, nella realizzazione di quattro impianti che dovrebbero recuperare fino a 600 kt all’anno di rifiuti organici per la produzione di bio-olio e biometano, per integrare e potenziare lo stabilimento di Crescentino (Vercelli) della Versalis, azienda chimica di Eni, per produrre etanolo e bioetanolo da materie prime rinnovabili e per la costruzione di un impianto per produrre polimeri ottenuti da processi di pirolisi da utilizzare nella realizzazione di nuove plastiche. Quanto c’è di “rivoluzione verde e transizione ecologica” in tutto questo? “Poco o nulla. Intanto bisogna ricordare che il metano è un gas serra anche più potente dell’anidride carbonica – conclude Giannì – e poi l’impressione è che si continui a ripercorrere la stessa strada. Anche estraendo petrolio, realizzando plastica e riconvertendone una parte in combustibile. Nulla cambia davvero, se la fonte è sempre fossile”.