La docuserie Netflix Sanpa, di Cosima Spender, è un racconto avvolgente in cinque episodi che rievoca una pagina controversa della seconda Italia repubblicana, in particolare di quella a cavallo tra gli anni 80 e 90 che si è trovata ad affrontare il dilagare dell’eroina nelle piazze e, soprattutto, nei tessuti famigliari e sociali del Paese ascrivibili alla categoria assolutoria del “disfunzionale”.
Il dibattito che sta generando, tuttavia, corre il rischio di rievocare quello dalla modalità da confronto “bianco o nero” dell’epoca e, così facendo, distoglie l’attenzione da ciò che gli autori sembrano essersi proposti: raccontare una storia di grigi, comprensiva di luci e di ombre, una storia di dipendenze, non necessariamente legate alla sola droga. Una storia che va oltre quella di quegli anni e di quei protagonisti, e sfocia in una tensione fisiologica che tocca qualsiasi comunità in crisi.
C’è infatti la confusione tra autorità e autorevolezza che prolifera nel vuoto delle istituzioni, c’è la dipendenza dalla figura carismatica a cui sia il ceto medio che una certa classe dirigente si rivolgono come a una sorta di Messia illuminato, per risolvere un problema che scuote le fondamenta delle certezze di un dato tipo di società, non solo di trent’anni fa.
È necessaria una premessa, sia relativa alla serie che a questa riflessione: si fa riferimento alla San Patrignano che va dai primi anni 80 alla prima metà degli anni 90, e nello specifico alle controversie di dominio pubblico che l’hanno riguardata, e che chi vi scrive ha trovato esemplari rispetto a problematiche ancora rilevanti.
Nessun tipo di contestazione o di dubbio viene sollevato sulle strutture attuali o sul loro operato, e qualsiasi tentativo di fare di tutta l’erba un fascio è fuori focus oltre che inopportuno. Detto questo, anche nei racconti di chi ha vissuto come virtuosa la San Patrignano di allora la figura di Vincenzo Muccioli risuona come totalizzante, quasi come “sostitutiva” di quel vuoto che aveva portato alla dipendenza in un primo momento. Talmente totalizzante che a un certo punto un’intera struttura contenente due migliaia di persone si identifica con le sorti umane e giuridiche di un uomo solo al comando.
Quando un uomo solo diventa un’intera comunità, con migliaia di esperienze umane al suo interno, è impossibile pretendere che ne emergano solo alcuni aspetti a scapito di altri, così come è impossibile isolare le figure in questione dagli accertamenti di responsabilità rispetto a fatti gravi. Un’identificazione simile è pericolosa sempre, in qualsiasi contesto storico e sociale, poiché costringe chiunque faccia parte di una data realtà, e che però non aderisce alla linea dettata dall’autorità, all’emarginazione, all’isolamento. A subire una violenza che nel migliore dei casi è psicologica, a prescindere da quanto numerosa sia la “maggioranza” che può dire di averne tratto beneficio. Violenza che cerca assoluzione e giustificazione nel bisogno stesso che ha generato l’adesione.
Ciò che trent’anni dopo risuona come più inquietante è il ricorrere che si fece allora a un’idea di approccio autoritario famigliare, “paterno”, come se da questo non possa derivare altro che beneficio appunto, a prescindere dai mezzi usati per raggiungerlo. Le percosse, le catene che in un primo momento l’opinione pubblica arrivò a lodare, oltre che giustificare (nella serie un risoluto Montanelli di repertorio afferma convinto che l’educazione “è crudeltà”) vengono paragonati a quelli, correttivi, di un genitore in casa.
Trent’anni dopo sembra assurdo si sia pensato di risolvere una questione pubblica e delicata, riguardante la salute fisica e mentale di migliaia di ragazzi, come se fosse una questione privata, tra un padre e i suoi figli. Trent’anni dopo sappiamo che la famiglia è il luogo in cui maggiormente avvengono le violenze, invece all’epoca pare bastasse questo per reclamare assoluzione. Gli schiaffi di un padre sono deresponsabilizzanti per tutti, ad eccezione di chi li subisce. Quell’idea di società correttiva, in cui i casi più difficili e ribelli venivano relegati a lavorare in una porcilaia se uomini, o in un settore dedicato alla tessitura se donne, affidati alla discrezione di capi reparto violenti, è una parabola fin troppo didascalica di un meccanismo sociale stantio e conservatore, ma che trova ancora troppe analogie con il presente, in cui il vertice carismatico si fa sempre più lontano dalle problematiche degli ultimi, e il bene della struttura diventa superiore rispetto al bene del singolo. Il singolo diventa così anomalia, le sue istanze vengono schiacciate e, nel caso delle vittime accertate, così è stato anche per la loro dignità di esseri umani.
Guardando la serie è fin troppo evidente come in alcuni casi sia tardi per prendere posizione su storie che hanno già compiuto il proprio drammatico ciclo, e come quel tipo di dibattito possa appartenere esclusivamente a chi l’ha vissuto in prima persona, tutto il resto è proiezione di sé fuori tempo massimo. Il conto delle tante vite “salvate” giustifica quelle perse? Si può davvero ridurre tutto a una questione meramente numerica? La serie non sembra voler rispondere a queste domande, funziona piuttosto come uno specchio: chi la osserva e si riconosce in quell’idea educativa che non rifiuta l’ipotesi di metodi correttivi, coercitivi, non fatica a prendere posizione. Lo stesso dicasi per chi accoglie con orrore questa prospettiva e rimane preda del turbamento, dello sconcerto, dell’indignazione.
Chi l’ha vissuta, invece, se la porta dentro. Con tutte le sue luci e le sue ombre.