Si avvicina la riapertura delle scuole, sia pure con orario e frequenza parziale: è il momento in cui bisognerà fare i conti con i banchi vuoti. Quelli lasciati liberi dagli invisibili di questi mesi: si sapeva che erano spariti dai radar della didattica a distanza perché i docenti hanno colto il progressivo abbandono, i video oscurati “per sentire meglio la lezione”, la sistematica assenza alle interrogazioni, le assenze prolungate e nemmeno più giustificate, insomma tutto quell’insieme di comportamenti che lasciavano presagire quello che poi probabilmente è già successo: la rinuncia.

Il ritorno alla scuola vera ne mette in luce le difficoltà storiche, amplificate dalla pandemia, ma mostrerà il disastro dei servizi sociali e delle strutture di supporto alla popolazione giovanile del nostro paese, a cominciare dalle “politiche si sostegno alla famiglia”. I tassi annui di abbandono scolastico prima del Covid sfioravano il 10% degli iscritti nelle scuole professionali e il 5% di quelli degli istituti tecnici e commerciali, per scendere considerevolmente nei licei. Anche in questo campo l’Italia deteneva una specie di primato all’incontrario che non è difficile ipotizzare verrà ulteriormente incrementato da questo interminabile periodo di chiusura.

La Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2020 della Commissione europea, pubblicata pochi giorni fa, ci offre la fotografia di un mondo che non c’è già più, soppiantato da un altro di cui non conosciamo ancora nemmeno i contorni, ma che già pone numeri e storie che neanche si immaginavano. L’anno scorso il 13,5% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato gli studi prima della conclusione; nel 2018 era stato il 14,5%. Ancora in calo rispetto all’obiettivo del 16% stabilito, ma molto alto rispetto alla media Ue del 10,2%.

Anche i dati sull’abbandono riflettono le disparità geografiche: sotto il 10% in quasi tutto il Nord e il Centro, quasi al 17% nel Sud e nelle isole. Ragazze più tenaci dei maschi (11,3% contro 15,4% di abbandoni), quasi uno studente allievo straniero su tre non conclude il suo percorso di studi. Intanto la spesa per l’istruzione, pur cresciuta dell’1%, continua a essere la più bassa d’Europa. Uno su tre degli iscritti alla prima superiore non arriva alla maturità; trasformando le percentuali in persone, si tratta di oltre 500mila giovani destinati a diventare serbatoio di manodopera a basso costo per i prenditori nostrani (gli imprenditori veri la manodopera la vogliono qualificata e istruita) o operatori di strada della malavita.

In questi mesi sono state numerose le segnalazioni della progressiva sparizione dai monitor di allievi non particolarmente problematici sul piano cognitivo, ma deboli socialmente – nel supporto famigliare, nella capacità di seguire percorsi che richiedono costanza e autonomia – pur senza riuscire a quantificare il fenomeno. Fra pochi giorni lo sapremo. Qualcosa si deve e si può fare, seppure in un panorama nel quale la sperimentazione educativa manca da almeno 20 anni (pochi modelli a disposizione) e l’integrazione non è più un obiettivo della scuola dagli anni ‘70-’80 in poi. Due proposte possibili per cominciare in fretta a tamponare l’emergenza e gettare qualche seme per la scuola che serve.

Prima proposta. Ogni Direzione scolastica costituisce una squadra di “pronto intervento dispersione” col compito di censire rapidamente le situazioni critiche segnalate dai coordinatori di classe. Da utilizzare anche i volontari (insegnanti e operatori sociali in pensione, ad esempio), gli operatori sanitari e socioassistenziali. La squadra contatta la famiglia e ne verifica le condizioni per aiutare l’allievo a riprendere la scuola, nomina un tutor che ne sarà il riferimento. Si tratta di fragilità sociale – non è la somma di patologie individuali – dunque l’intervento non può essere medicalizzato (psichiatri, psicologi ecc…) pena il fallimento. Una parte importante la fanno gli insegnanti di classe, il tutor della squadra di istituto fa da tramite, da mediatore, da facilitatore.

Seconda proposta. Una fetta considerevole dei ragazzi che lasciano anzitempo, specialmente nelle scuole professionali, ha alle spalle famiglie problematiche e/o è straniera, magari di seconda generazione. I servizi sociali territoriali possono essere investiti di una funzione aggiuntiva da adattare alle caratteristiche del territorio: incentivare le famiglie che mandano i figli a scuola e ne curano la frequenza quotidiana con servizi e sostegni aggiuntivi. Molti dei quali da fruire a scuola, a cominciare dalla mensa. E dalle attività di recupero e di approfondimento. Esempi ce ne sono, basta studiarli ed adattarli.

Bisogna riaprire ciò che si è ostinatamente chiuso per troppo tempo: la scuola tutto il giorno; le sperimentazioni didattiche che innovano; l’attenzione alle generazioni future. Risorse: il Recovery Fund non si chiama proprio Next Generation Eu?

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