La vicenda Muccioli pare animare ancora gli animi. Una vicenda mai sopita perché, fondamentalmente, mai affrontata. SanPa, la serie di Netflix, ha – per alcuni giorni – operato il miracolo di fare parlare l’Italia di sostanze e consumatori. Purtroppo tale rumoroso dibattito si sta dirigendo verso i binari morti che portano ad una autorimessa per chiacchiere fuori tempo massimo se, da quelle cinque puntate, scaturirà solo una disputa tra tifosi di questa benedetta patria.
Patria, sia detto senza alcuna offesa, abbastanza derelitta. Talmente derelitta da fare di San Patrignano la più grande comunità europea tradendo il senso stesso di fare comunità, la quale, in letteratura, non può che essere agita all’interno di luoghi e spazi piccoli con numeri di ospiti altrettanto piccoli.
Così l’aveva immaginata Maxwell Jones, lo psichiatra che sperimentò le prime comunità, realmente terapeutiche e che probabilmente di fronte ai numeri di San Patrignano avrebbe trovato altre definizioni. Più in generale, tutta la vicenda sollevata dalla serie televisiva, ci pone alcuni quesiti ineludibili. Un primo riguarda il livello del dibattito sulle dipendenze, o sulle sostanze che non impera in Italia. Livello modesto per usare un eufemismo che potremmo calare in dibattiti di dieci o venti e, forse, anche di trenta anni fa.
Si è deciso di indietreggiare rispetto ad ogni forma di evoluzione che avrebbe potuto fare dell’Italia un paese in linea con molti altri, semplicemente scegliendo di rimanere immobili. Con le stesse parole d’ordine, termini come vita o morte, all’interno di una dicotomia che finisce con lo scontentare tutti. A partire da chi, le sostanze le consuma e che, forse nell’anno Domini 2020, non trova nella rete dei servizi pubblici e in quella delle comunità terapeutiche, una risposta ai suoi particolari bisogni. Per finire al mondo degli stessi operatori che sembra sempre più paralizzato in ragnatele burocratiche e sempre meno attivo per cogliere i mutamenti sociali.
E noi, oggi, siamo ancora a parlare di Vincenzo Muccioli, dei suoi metodi violenti, della salvezza di vite e di tutto il caravanserraglio di una epoca che ha pensato che le comunità potessero risolvere il fenomeno dei consumi, dimenticando quanto i consumi si siano diffusi, quanto siano penetrati tra persone socialmente integrate e quanto, oggi, alle strutture residenziali sia chiesto non di pavoneggiarsi come unicum irripetibile ma di essere parte di un tutto che si chiama progetto terapeutico.
E’ abbastanza mortificante per chi scrive dovere ricordare che, non più tardi di un mese e mezzo fa, si sono tenute audizioni parlamentari per stabilire se le pene per i consumatori fossero sufficientemente severe o non fosse il caso di aggravarle. Il tutto in assenza di un impegno, un pensiero, un qualche cosa di intellegibile che volesse affrontare il tema di servizi all’altezza della situazione.
Questa è la ragione per cui rimango abbastanza indifferente al dibattito sviluppatosi a seguito della presentazione della serie televisiva. Serie storicamente ben costruita, sia chiaro. Serie che aiuterà chi non ha vissuto quella stagione a realizzare quanto lo Stato fosse simile ad un pugile suonato in quel periodo. Ma se vogliamo rituffarci nella realtà di oggi, il fatto stesso che i protagonisti siano sempre gli stessi nelle loro immutabili certezze, ci conduce a pensare che oggi, il nostro Stato, è finito KO.