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Dall’assalto al Congresso agli ultimi 14 giorni da presidente: Trump scaricato anche dai suoi, ora rischia la rimozione dalla Casa Bianca

L'ANALISI - The Donald scompare dalla scena pubblica dopo uno dei momenti più drammatici della storia americana (per ritrovare un evento paragonabile bisogna tornare all’attacco inglese dell’agosto del 1814). Il partito prende le distanze, anche il vice-Pence lo scarica e alcuni ministri avrebbero discusso la possibilità di invocare il 25esimo Emendamento per rimuoverlo. E i dem avanzano l'ipotesi dell'impeachment

Il Congresso degli Stati Uniti è tornato a riunirsi per ratificare i collegi elettorali e dichiarare Joe Biden presidente. Scossi, emozionati, increduli di fronte all’attacco dei sostenitori di Donald Trump, deputati e senatori hanno ripreso a convalidare le schede. Prima però in molti hanno sottolineato l’eccezionalità del momento, il suo carattere di vergogna nazionale. Il leader repubblicano del Senato Mitch McConnell ha detto che il Congresso non si farà intimidire “da un manipolo di delinquenti e dalle minacce”. “È un’infamia che resterà per sempre sulla coscienza nazionale”, ha dichiarato il leader dei democratici, Chuck Schumer. Dopo l’appello ai suoi per mettere fine alle violenze, Donald Trump è scomparso dalla scena pubblica. Dalla Casa Bianca, in tv, ha assistito alla ripresa dei lavori al Congresso. Pochi dubbi che questo sia stato forse il giorno più tragico della sua presidenza, iniziata con il riferimento all’“American carnage”, al massacro americano, e terminata con scene di un altro massacro.

LA BATTAGLIA PROCEDURALE – Dopo il ritorno di deputati e senatori nell’aula del Congresso – scortati dalla polizia, che li aveva prelevati e guidati al sicuro qualche ora prima – è ripreso il conteggio dei collegi elettorali. L’obiezione di alcuni repubblicani al risultato dell’Arizona, che era discussa al momento dell’assalto, è stata rigettata. Così anche quella relativa alla Georgia. Obiezione da parte di una settantina di repubblicani anche alla legittimità del voto in Pennsylvania. Il Senato l’ha liquidata con 92 voti contro 7 (tra questi, i senatori Josh Hawley e Ted Cruz, che hanno guidato l’attacco al voto). Almeno quattro senatori repubblicani – tra cui Kelly Loeffler, appena sconfitta nel ballottaggio in Georgia – hanno cambiato idea dopo l’assalto al Congresso e deciso di sostenere la regolarità del voto. Un gruppo comunque nutrito di repubblicani non si è fatto turbare dalle violenze del pomeriggio e ha continuato nell’ostinata operazione di delegittimazione dei risultati. La battaglia procedurale è continuata nella notte e arriverà con ogni probabilità fino a giovedì mattina. Gli assalitori pro-Trump hanno quindi ottenuto un obiettivo: ritardare, sia pure di qualche ora, la designazione di Biden alla Casa Bianca.

L’INSURREZIONE – Con il passare delle ore, si è delineata meglio la dinamica degli incidenti, le vittime, le responsabilità della sicurezza. Sono quattro i morti nell’attacco al Congresso. Una donna è stata uccisa dalla polizia sulle scale del Campidoglio. Altre tre persone sono morte dopo essere state condotte d’urgenza in ospedale. Cinquantadue sono gli arrestati. La polizia di Washington spiega di aver trovato ordigni pronti ad esplodere all’ingresso degli uffici del partito democratico e di quello repubblicano. Fucili e molotov sono state rinvenute in un’auto. Si valutano anche i danni all’edificio del Campidoglio, tra cui vetri infranti, uffici vandalizzati, piccoli furti. Analizzata anche la possibilità che l’arrivo di migliaia di persone a Washington sia stato in qualche modo sottovalutato dalle autorità di polizia, dal Pentagono, dalle autorità cittadine, che avrebbero schierato forze insufficienti a gestire il caos annunciato.

LA GESTIONE DELL’ASSALTO – È stato il vice presidente Mike Pence e non Trump a insistere perché contro la folla degli assalitori venisse schierata la Guardia Nazionale del Distretto di Colombia (oltre alla forze di polizia locale). Pence, in collegamento pressoché continuo col Pentagono, avrebbe accelerato i tempi della decisione, sollecitato anche dalle richieste di aiuto che venivano dalle forze schierate a difesa del Congresso, sempre meno capaci di contenere la folla. La notizia è interessante. Nel momento più grave dell’assalto all’assemblea legislativa della nazione – per ritrovare un evento paragonabile bisogna tornare all’attacco inglese dell’agosto del 1814 – la carica di commander in chief sarebbe stata esercitata dal vice presidente e non dal presidente degli Stati Uniti. L’esclusione totale di Trump dalle decisioni più difficili è stata confermata dai vertici stessi del Pentagono. Il segretario alla difesa Christopher Miller ha affermato che lui e il capo dell’esercito Mark Milley sono stati in contatto con Pence, con la speaker della Camera Nancy Pelosi e con il leader del Senato Mitch McConnell, per decidere come difendere il Congresso. Nemmeno un accenno a Trump. L’indiscrezione conferma l’immagine di un presidente ormai sempre più isolato, tenuto fuori dagli affari di governo, prigioniero di idee e deliri cospiratori sulla sua sconfitta elettorale.

LE REAZIONI – Le parole più usate in queste ore, da politici, commentatori, nelle aule del Congresso e sui media, sono insurrezione, sedizione, colpo di stato. Del resto quello cui si è assistito sarebbe stato considerato impossibile fino a qualche tempo fa. La folla che invade il Congresso impugnando cartelli pro-Trump. Gli agenti che rivolgono la pistola contro chi porta la bandiera americana. Deputati e senatori che si nascondono dietro i loro seggi e che vengono scortati fuori del Congresso con le maschere antigas. Distruzioni e vandalismi nel cuore della democrazia americana. Le immagini dell’attacco al Congresso hanno sconvolto l’America come nient’altro nella storia più recente. Il terrorismo domestico, nazionale, di cui negli ultimi anni si è così spesso parlato, ha compiuto il suo gesto più clamoroso. L’attacco alla democrazia di Trump è diventato letterale. E se lo sdegno dei democratici era atteso, anche buona parte dei repubblicani appare compatta nella condanna. L’onda lunga dello shock è entrata anche alla Casa Bianca e nell’amministrazione. Si sono dimessi Stephanie Grisham, chief of staff di Melania Trump ed ex press secretary della Casa Bianca, e il responsabile dei social di Trump, Rickie Niceta. Fonti interne all’amministrazione dicono è sul punto di dimettersi Robert O’Brien, il consigliere alla sicurezza nazionale, come ha già fatto – secondo la Cnn – il suo vice Matthew Pottinger. In partenza sarebbe anche la segretaria ai trasporti, Elaine Chao.

FACEBOOK E TWITTER CONTRO TRUMP – Misure cautelative sono state prese da Facebook, Instagram e Twitter. Facebook ha sospeso l’account del presidente per 24 ore. La stessa cosa ha fatto Instagram. La sospensione di Twitter è di 12 ore, ma la società ha bloccato la possibilità di ritwittare i messaggi di Trump e chiede anzi che tre di questi vengano cancellati perché ingannevoli. Se il presidente non lo farà, il suo account resterà sospeso indefinitamente. Intanto la parola impeachment torna a essere associata a Trump. Restano ancora 14 giorni di governo all’attuale presidente ma alcuni chiedono apertamente la sua messa sotto accusa. Lo fa per esempio la deputata democratica Ilhan Omar, che dice che “noi non possiamo consentirgli di restare in carica, è una questione di tutela della nostra Repubblica”. La richiesta di impeachment arriva anche da diversi media: la fa il Washington Post in un editoriale e The Atlantic in un commento. In serata è anche emersa una notizia clamorosa (fonte CBS): diversi ministri avrebbero discusso la possibilità di invocare il 25esimo Emendamento e rimuovere Trump dalla Casa Bianca. La mossa, per ora soltanto ventilata, sarebbe stata presentata al vice Mike Pence. La rimozione di Trump sulla base del 25esimo Emendamento è stata chiesta, tra i tanti, da Jay Timmons, presidente della potentissima National Association of Manufacturers.

IL RAPPORTO TRA TRUMP E I REPUBBLICANI – Per quattro anni la gran parte del partito repubblicano ha subito, appoggiato, difeso, tollerato Trump. L’ha subito ai tempi della campagna elettorale del 2016, quando nessuno davvero credeva che un imprenditore immobiliare e celebrity televisiva, folkloristico ed eccessivo, potesse davvero conquistare la candidatura. L’ha appoggiato ogni volta che Trump ha dato ai repubblicani quello che i repubblicani chiedevano, dai tagli alle tasse per i più ricchi alla deregolamentazione ambientale fino alla nomina di decine di giudici federali conservatori. L’ha difeso durante il Russiagate e quando Trump è stato messo sotto impeachment. L’ha tollerato quando Trump ha assunto i toni più estremisti e complottisti. L’attacco al Congresso cambia radicalmente cose. Il legame tra la retorica eversiva di Trump e chi ha invaso Camera e Senato è davanti agli occhi di tutti, anche dei repubblicani. “Quanto successo oggi è un’insurrezione provocata dal presidente”, ha detto il senatore Mitt Romney. “Non c’è dubbio che il presidente abbia plasmato questa gentaglia, l’abbia incitata. È lui che ha acceso la fiamma”, ha spiegato la deputata del Wyoming Liz Cheney. Ma le reazioni più significative sono state sicuramente quelle di Mike Pence e Mitch McConnell. Pence si è decisamente rifiutato di fare quello che Trump gli chiedeva: bloccare la certificazione dei collegi elettorali. McConnell ha spiegato, chiaramente, che il Congresso “non può ribaltare la volontà popolare”, quindi la vittoria di Biden.

LO SCENARIO – Dopo 1448 giorni di insulti su Twitter, deformazione continua della verità, disordini razziali, richieste di impeachment, caos istituzionale, indifferenza per gli affari di governo, ora l’attacco al Congresso, anche i leader repubblicani devono quindi riconoscere la natura tossica di Donald Trump. Nelle prese di distanza di queste ore c’è però sicuramente anche un calcolo banalmente utilitaristico. Trump non garantisce più la vittoria; anzi, è un elemento di disturbo e polarizzazione che porta alla sconfitta dei candidati repubblicani, come il caso della Georgia dimostra. Avere il presidente sulla scena della politica per altri quattro anni, permettere che la sua forza organizzativa e finanziaria cresca, è qualcosa che i repubblicani non possono più permettersi. Anche perché Pence e altri big del partito pensano a una candidatura nel 2024 e l’ultima cosa che vogliono è avere Trump come rivale alle primarie o anche solo come padrino politico. Il 6 gennaio 2020, il giorno che passerà alla storia come uno dei più infamanti della storia d’America, è dunque anche quello che segna il divorzio definitivo tra Trump e il G.O.P.. “A Washington devono capire che questo non è più il loro partito repubblicano, è il partito repubblicano di Donald Trump”, ha detto poche ore fa Donald Jr., il figlio del tycooon. Nei prossimi mesi i repubblicani di Washington faranno di tutto per evitare proprio questa possibilità. Anche per loro, diventa vitale che il presidente più divisivo, eccessivo, ora persino golpista della storia americana, si faccia da parte.