Emanuele Mancuso, rampollo della cosca di Limbadi e primo pentito dell’omonima famiglia di 'ndrangheta, scrive una missiva per spiegare che la sua scelta di collaborare con la magistratura è stata dettata dall’esigenza di dare un futuro alla figlia: "Ho deciso di collaborare con la giustizia proprio in prossimità della sua nascita anche con la speranza di offrirgli un futuro diverso, lontano dal contesto sociale e criminale di mia appartenenza"
“La bambina è in mano alla ‘ndrangheta ed usata come merce di scambio. Chiedo solo giustizia”. Sono le parole di Emanuele Mancuso, rampollo della cosca di Limbadi e primo pentito dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta. Figlio del boss Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere”, da un paio d’anni Emanuele Mancuso sta collaborando con la Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Grazie alle sue dichiarazioni, la Dda ha inferto duri colpi ai clan di Vibo Valentia. I suoi verbali, infatti, sono stati utilizzati dai pm in diversi processi come “Rinascita-Scott” e altre inchieste che hanno riguardato la cosca Mancuso.
La sua scelta di saltare il fosso – sostiene lui – è stata dettata dall’esigenza di dare un futuro alla figlia: “Ho deciso di collaborare con la giustizia – spiega infatti il pentito – proprio in prossimità della sua nascita anche con la speranza di offrirgli un futuro diverso, lontano dal contesto sociale e criminale di mia appartenenza”. Ed è per questo che, adesso, Emanuele Mancuso ha deciso di scrivere ai giornali dopo aver letto gli atti del processo che vede imputati alcuni suoi familiari con l’accusa di aver tentato di convincerlo a ritrattare le sue dichiarazioni e ritornare nelle file della cosca.
“Intendo manifestare – scrive il collaboratore – il mio stato di frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia, di soli 30 mesi di vita, poiché, nonostante le notorie vicende legate alle pressioni da me subite per la scelta intrapresa, scaturite nel procedimento penale, in fase di trattazione, a carico della mia ex compagna e dei miei congiunti, ad oggi, ella, seppur sottoposta allo speciale programma di protezione, nella realtà dei fatti, grazie alla disponibilità della madre, Nensy Vera Chimirri, mantiene contatti con gli ambienti ‘ndranghetistici”. “Da padre, non posso accettare quello che sta succedendo!”. Emanuele Mancuso si sfoga e ricorda di “aver chiesto alla Procura Distrettuale che la bambina, insieme alla madre, all’epoca mia compagna, venisse ammessa allo speciale programma di protezione. La mia scelta non è stata condivisa da Nensy Vera Chimirri che ha, prontamente, rifiutato la collocazione in località protetta e l’ammissione allo speciale programma di protezione rimanendo, invece, legata alla famiglia Mancuso, condividendone lo stesso tetto insieme alla bambina”.
Secondo il pentito si è passati “dal paradossale alla beffa”: “La Procura minorile di Catanzaro, – aggiunge – per tutelare mia figlia, ha avanzato, nei primi mesi dell’anno 2019, al Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, richiesta di immediato allontanamento della minore dalla Calabria con collocazione in località protetta. Il Tribunale per i minorenni, inspiegabilmente, per ben tre volte, ha provveduto a rigettare tale richiesta lasciando la minore sul territorio vibonese, incurante del grave pericolo che incombeva, seppur conscio del fatto che pendeva e pende, sulla mia testa, una taglia, di circa 1 milione di euro, messa da Luigi Mancuso”.
Stando al racconto di Emanuele Mancuso, la bambina sarebbe stata allontanata dal territorio vibonese, “unitamente alla madre ‘se consenziente’”. Così avrebbe scritto il Tribunale per i minorenni di Catanzaro con decreto provvisorio. “Nella realtà dei fatti – ribadisce il pentito – ha “incaricato la madre” ad occuparsi della crescita e dell’educazione della bambina, indifferente del fatto che, ella, non si è mai dissociata dalle logiche ‘ndranghetistiche. Mia figlia, ad oggi, continua a vivere con la madre, legata, senza ombra di dubbio, alla cosca Mancuso”.
Di questo, il collaboratore non ha dubbi e lo desume dagli atti dell’inchiesta sui suoi familiari: “Dal materiale intercettivo – spiega – si evince, chiaramente, che Nensy Vera Chimirri è collegata, tutt’oggi alla cosca, in quanto è difesa e assistita da un noto avvocato del Foro di Palmi che risulta essere sul ‘libro paga’ della cosca. Questa non è una mia invenzione ma è quanto emerge da una intercettazione telefonica tra il professionista e Rosaria Rita Del Vecchio (sua zia, ndr), rappresentante la famiglia Mancuso. In tale circostanza il mandato difensivo è stato conferito da Nensy Vera Chimirri, ma il professionista anziché riferire l’evolversi della vicenda alla sua assistita provvede, con priorità, a relazionarsi con Rosaria Rita Del Vecchio, la quale si occupa anche del pagamento delle spese legali”.
Nella lettera, il pentito riporta anche un passaggio di un’intercettazione in cui la zia avrebbe invitato l’avvocato ad andare presso la sua abitazione dicendo “vieni ti do 5mila euro”. “Alla risposta del legale – aggiunge Mancuso – che in quel momento non poteva recarsi sul posto, la Del Vecchio replica ‘te ne do 10mila euro’ e il professionista risponde ‘vengo pure in biciletta’”. In un’altra intercettazione, suo padre il boss Pantaleone Mancuso avrebbe rassicurato l’ex compagna del pentito dicendole: “Stai tranquilla, Io farò di tutto. Non ti preoccupare, stai tranquilla. Deve passare sul mio cadavere”.
“Da padre – continua il collaboratore – non riesco a darmi pace in quanto detto materiale è in possesso del Tribunale per i minorenni e nessun provvedimento è stato preso per tutelare, effettivamente, mia figlia. Emerge un quadro sconvolgente e cioè l’interessamento della cosca alle sorti della mia bambina”. Emanuele Mancuso accusa la sua ex compagna ma anche i magistrati che non hanno preso provvedimenti per tutelare la figlia: “Nensy Vera Chimirri in tutta tranquillità e serenità, interloquisce e si incontra con latitanti e soggetti irreperibili del calibro di Giuseppe Salvatore Mancuso e Pantaleone Mancuso, alias ‘L’ingegnere’. Non posso accettare più questa situazione e chiedo, a gran voce, un intervento risolutivo per strappare, definitivamente, la mia bambina dalle mani della ‘ndrangheta. In quasi tre anni ho visto mia figlia poche volte. La madre ha sempre cercato di impedirne i contatti, operando continue vessazioni nei miei confronti e soprattutto con l’indifferenza di un Tribunale per i minorenni che è rimasto inerte alle mie continue e numerose segnalazioni”.