La notizia ha fatto il giro del mondo in una manciata di minuti e non poteva essere diversamente. Facebook e Twitter, a seguito dell’invasione violenta di Capitol Hill costata la vita a quattro persone, hanno bloccato i profili social di Donald Trump, ancora per qualche giorno Presidente in carica degli Stati Uniti d’America, per scongiurare il rischio che quest’ultimo li utilizzasse per incendiare le folle e osteggiare l’avvicendamento alla guida del Paese con Joe Biden, Presidente eletto e suo successore.
“Riteniamo che i rischi di permettere al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio durante questo periodo siano troppo grandi” ha scritto ieri Mark Zuckerberg sul suo profilo Facebook per spiegare la decisione di bloccare Trump, e ha poi aggiunto: “Gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano chiaramente che il presidente Donald Trump intende utilizzare il tempo che gli rimane in carica per minare la transizione pacifica e legittima del potere al suo successore eletto, Joe Biden” mentre “Dopo la certificazione dei risultati elettorali da parte del Congresso, la priorità per l’intero Paese deve ora essere quella di assicurare che i restanti 13 giorni e i giorni successivi all’inaugurazione passino pacificamente e secondo le norme democratiche stabilite”.
Abbiamo deciso di bloccare Trump a difesa della democrazia, insomma, dice il fondatore di Facebook. E le sue parole sono tutte, una per una, condivisibili oltre ogni ragionevole dubbio. Trump ha passato il segno e sta utilizzando i media per arringare le folle al sovvertimento violento delle regole democratiche, purtroppo, peraltro, con risultati drammatici.
E, però, quella andata in scena con il blocco dei suoi account social non è una bella pagina per la democrazia americana né per quella globale. In democrazia non tocca a un soggetto privato – neppure se si tratta del più grande social network della storia – decidere quando è arrivato il momento di ordinare l’ostracismo di un cittadino in ragione di quel che dice o scrive online, neppure o, forse, a maggior ragione, se si tratta del Presidente in carica degli Stati Uniti d’America.
Mi rendo conto che questa conclusione è forte, apparentemente contro-intuitiva e impopolare, ma credo sia l’unica democraticamente sostenibile. Se i social sono, come molto spesso si dice, la più grande piazza pubblica della storia dell’umanità, allora quello ordinato ieri da Facebook e Twitter è a tutti gli effetti un ostracismo e l’ostracismo è un istituto giuridico nato nella democrazia ateniese del 500 a.C. con il quale, all’esito di una votazione – e solo all’esito di una votazione – il popolo condannava chi avrebbe potuto rappresentare un pericolo per la democrazia all’esilio per dieci anni.
E, nelle moderne democrazie, l’adozione di qualsiasi provvedimento che limiti la libertà di un cittadino deve necessariamente competere a giudici e autorità indipendenti e essere adottato applicando leggi varate dal Parlamento.
Ogni deroga a questo principio, non ha importanza quanto giusta nella sostanza e quanto capace di garantire in tempi rapidi un risultato pure largamente condiviso, rappresenta una scorciatoia democraticamente inaccettabile e una restaurazione del principio machiavellico secondo il quale il fine giustifica i mezzi.
Non tocca, non può toccare e non dove toccare a una società privata adottare un provvedimento di ostracismo mediatico neppure dinanzi alla più evidente delle violazioni delle regole democratiche.
Se si accetta, per comodità, per semplicità, per rapidità, l’alternativa che i social network, in questa vicenda, ci hanno proposto e anzi imposto, la cura risulterà, nel medio periodo, peggiore del male e i rischi per la democrazia superiori a quelli che si vorrebbero evitare.
Facebook e Twitter, quindi, hanno sbagliato. Il loro gesto è sovversivo rispetto all’ordine democratico, tanto quanto quello di un Presidente in carica che non accetta il risultato delle urne e di lasciare il posto al suo successore.
Ma al tempo stesso – come pure sta accadendo in queste ore – guai a puntare l’indice contro Facebook e Twitter per il ruolo che stanno giocando perché, senza falsa ipocrisia istituzionale, bisogna riconoscere che di giocare quel ruolo glielo abbiamo chiesto noi, glielo hanno chiesto e glielo stanno chiedendo, da anni, i Governi di mezzo mondo abdicando all’esercizio dei loro poteri costituzionali, smarriti e spaventati dai tempi nei quali accadono le cose sul web e, più in generale, del digitale, così tanto da preferire che online la giustizia sia amministrata da soggetti privati anziché da giudici e autorità.
Ora abbiamo toccato il fondo: una società privata ha condannato all’ostracismo il Presidente democraticamente eletto e in carica della più grande democrazia occidentale a difesa della democrazia. Ma questa non è democrazia e non ha niente a che vedere con la democrazia.