Il “terrore” “per essere davvero totale, dirompente e inarginabile deve provenire da una mano invisibile“. La riflessione di Michele Leoni, presidente della Corte d’assise di Bologna che ormai un anno fa condannò Gilberto Cavallini all’ergastolo, arriva a pagina 2073 delle motivazioni della sentenza sul processo all’ex Nar alla sbarra con l’accusa di essere di quarto uomo nella mattanza del 2 agosto 1980, quando una bomba sventrò la stazione e lasciò tra le macerie e nella polvere 85 vite perse e 200 feriti. Per Leoni, giudice estensore del verdetto, il “dilemma” se la “strage di Bologna sia una strage ‘comune’ o ‘politica’ “non esiste”, in radice, “perché si è trattato di una strage politica, o, più esattamente di una strage di Stato“. Ed è una conclusione che per il magistrato arriva in maniera fluida e quasi spontanea con queste parole: “Lo si comprende in maniera già esaustiva e incontestabile dai depistaggi che vi sono stati, soprattutto quello consacrato nelle condanne definitive emesse a carico di Gelli, Musumeci, Belmonte, Pazienza (ossia uomini ai vertici delle istituzioni, o che le stavano metastatizzando con le loro consorterie, o che erano inviati speciali da paesi esteri). Queste persone – ragiona il giudice – non avrebbero avuto interesse a coprire e mandare impuniti quattro criminali che si divertivano a scatenare il panico nella popolazione e turbavano la convivenza sociale se in ballo non vi fosse stato anche il loro interesse. Nessuna logica può affermare il contrario“.
La “mano invisibile” del terrore – La procura generale di Bologna – che avocando un fascicolo destinato all’archiviazione – sta perseguendo il percorso che ha portato a chiedere il rinvio a giudizio per il possibile quinto uomo dell’attentato, Paolo Bellini, per chi è considerato complice del depistaggio, l’ex generale del Sisde Quintino Spella e l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, e per Domenico Catracchia, amministratore di condominio di immobili in via Gradoli a Roma, imputato per false informazioni al pm, troverà nelle parole messe nere su bianco una sorta di indicazione dell’orizzonte da esplorare in futuro nuovo processo. “Sia chi ha commesso una strage (come qualsiasi altro delitto) sia chi lo protegge, è a conoscenza delle ragioni per le quali la strage è stata fatta, e doveva essere fatta. Soprattutto – si legge nelle motivazioni – entrambi vogliono salvaguardare il fine della strage, ossia il terrore, che per essere davvero totale, dirompente e inarginabile deve provenire da una mano invisibile. Solo in questo modo si fa sentire la popolazione esposta su tutti i fronti, in balia di ogni cosa, senza coordinate, riferimenti, ripari sicuri, perché nessuno può individuare un nemico da cui difendersi”.
Il “compromesso storico” mancato e il “botto risolutivo” – Un nemico che era perfettamente inserito in un contesto storico, quello degli anni di piombo, dove la “prospettiva politica atlantista” la faceva da padrone e venuta meno la possibilità del compromesso storico portò avanti “il botto“. Un inquadramento non nuovo per lo stesso estensore che però viene descritto seguendo una struttura precisa. Può essere “raffigurato secondo uno schema geometrico costituito da tre concentrici – scrive il giudice – nel minore e nel più interno di essi si inquadra l’attività (ideativa e organizzativa) delle cellule operavano sul piano materiale, a cui a volte l’esecuzioni di stragi e attentati veniva appaltata. Immediatamente sopra a questo, quale cerchio intermedio, si collocano l’attività e il moto globale dell’eversione di stampo terroristico volta al sovvertimento dell’ordine istituzionale tramite una strategia del terrore indiscriminata. Il terzo cerchio, quello più estremo, si identifica nella cornice piduista, intimamente integrata in una prospettiva politica atlantista la quale coltivava e strumentalizzava le attività eversive e terroristiche a fini di consolidamento e occupazione del potere”. E le prove raccolte nel processo – durato quasi due anni – tutte le “prospettazioni giudiziarie” “depongono per una interpretazione dei fatti univoca. In quell’estate del 1980 la P2 era al suo massimo fulgore. Venuta meno la possibilità del compromesso storico (che in prospettiva avrebbe aperto finalmente la strada di una democrazia dell’alternanza, invisa anche al blocco sovietico) le mancava solo il ‘botto’ risolutivo, nell’interesse proprio e di altri”.
Tutte le piste straniere per negare la responsabilità dei terroristi neri – Dopo iniziò la girandola vorticosa di depistaggi e l’inserimento di piste straniere: quella tedesca, quella libanese, spagnola, la monegasca (pista Ciolini), la libica e naturalmente quella palestinese la più famosa (archiviata nel 2015 dopo 9 anni di indagine, ndr) che la difesa dell’imputato Cavallini ha cercato di riportare nel processo. Il giudice ricorda che è “stato gettato un amo anche per una pista israeliana, troppo impegnativa però perché potesse essere accolta da qualcuno. Resta invece il fatto che quella di Bologna è stata una strage buona per tutte le piste, varie, eterogenee, tutte fungibili come pezzi di ricambio, per nulla imparentata l’una con l’altra, salvo che per un comune intento: negare la responsabilità di terroristi di destra italiani, servizi segreti italiani e istituzioni italiane, e dirottare tutto su imprecisate, fantomatiche e fantasiose organizzazioni estere, o su governi esteri che a loro volta reclutavano imprecisati e fantomatici mercenari. Anche questo non è senza significato. Ma è anche drammatico perché rivela come, da più parti, ma congiuntamente si sia sempre operato sistematicamente per nascondere la verità. Quella della strage di Bologna resta una vicenda costellata da una stupefacente convergenza di falsità e depistaggi, che dura tutt’ora”.
La galassia di destra “melting pot” con “identità condivisa” – Ma qual era il vero volto di questi terroristi? Per la Corte d’Assise la “destra radicale ed eversiva non era un insieme di sigle separate e fra loro indipendenti, ma un insieme di componenti che fra loro interagivano e cooperavano attraverso la compartecipazione e l’osmosi, all’insegna di un disegno comune. Ciò era caratteristico, anzitutto, delle due formazioni, i Nar e Terza Posizione, che maggiormente riscuotevano l’adesione delle nuove leve, i giovani e giovanissimi che attratti dal miraggio di combattere, anche in maniera cruenta, la società borghese e giungere a una rivoluzione
antitetica a quella perseguita dagli estremisti di sinistra”. Una visione che ha portato la procura generale di Bologna ha ipotizzarlo nella tranche d’inchiesta che riguarda i mandanti della strage.
“Nar e Terza Posizione non erano entità così distinte, divergenti, separate, concorrenziali anche dal punto di vista ideologico, come da più parti si è voluto far credere. Al contrario, vi erano punti di contatto, sovrapposizioni, compenetrazioni, sinergie, che, peraltro, come si vedrà dal complesso delle dichiarazioni raccolte, erano assai ampie e travalicavano non solo gli ambiti dichiarati di queste due entità, ma si proiettavano addirittura su tutta la destra eversiva, la quale ben poteva considerarsi una sorta di melting pot in cui tutte le componenti si riconoscevano in un’identità condivisa”, si legge nelle motivazioni. Un panorama quindi variegato in qualche mondo ma unito nell’identità e anche nei rapporti con i servizi segreti, da cui certamente non erano esclusi i Nar. “Non si capisce come mai – si legge in un altro capitolo del verdetto – nel variegato panorama del terrorismo di destra, Tuti, Concutelli, Delle Chiaie, Graziani, Massagrande, i vari capi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, Fachini, nonché Fiore e Adinolfi, fossero tutti compromessi con i Servizi e con altri poteri dello Stato, e solo i Nar (Cavallini compreso) facessero eccezione”. I giudici escludono quindi che i Nar “fossero gli unici portatori di una verginità di intenti”. “Vi sono molti elementi per affermare che i Nar erano vicendevolmente integrati con personaggi e organizzazioni della stessa estrazione”. Inoltre, “una miriade di dichiarazioni depongono per una radicata compromissione fra terrorismo, P2, e Servizi segreti”.
“Cavallini poteva essere processato 38 anni prima” – il E Cavallini “era tutt’altro che uno ‘spontaneista’ confinato in una cellula terroristica autonoma. Nonostante la sua maniacale riservatezza il suo nome è comparso in molti scenari, direttamente e/o incidentalmente. Risulta chiaro che Cavallini, con i suoi ‘collegamenti, era pienamente consapevole dei disegni eversivi che coinvolgevano il terrorismo e le istituzioni deviate”. La corte boccia la parte di imputazione con il termine “spontaneista” che ha impedito un verdetto di colpevolezza per strage politica. Una visione “che riconduce tutto alla dimensione autarchica di 4 amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe, ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi) lascia perplessi, anche perché non si sa attraverso quale percorso istruttorio e/o processuale si sia approdati a ciò”. Senza dimenticare che Cavallini avrebbe potuto essere processato molto prima. Il giudice cita una lettera di Valerio Fioravanti (sulla cui posizione e responsabilità insieme Francesca Mambro vengono dedicate moltissime pagine, ndr) scriveva: “Prendi ad esempio la strage di Bologna: perché io e Francesca ci siamo dentro e non ci sono i vari Cavallini, che pure vivevano con noi?”. Ecco per il presidente estensore Leoni “il fatto che il contributo agevolatore fosse integrato anche dalla semplice ospitalità concessa all’attentatore (che poteva dirsi pacifico anche solo in base a questo scambio confidenziale) era di immediata percezione anche per il profano. Ben trentotto anni fa”.
“Indagare per falsa testimonianza Fioravanti, Mambro e Mori” – Nessuno dei condannati, né quelli in via definitiva – Fioravanti Mambro e Ciavardini – né Cavallini, ha mai ammesso la responsabilità di quella che resta una ferita ancora aperta, tra le tante, per l’Italia. Ma non solo è una vicenda destinata a tenere ancora impegnati gli uffici giudiziari, non solo perché l’11 gennaio riprenderà l’udienza preliminare per Paolo Bellini e gli altri imputati nel filone dei mandanti, ma perché l’Assise bolognese ha inviato gli atti ai pm perché indaghino ancora Fioravanti, Ciavardini, l’ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca, il generale Mario Mori e l’ex militante di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra. E se è pur vero per i giudici per i protagonisti di queste storie che sono Storia, “le dinamiche e le ragioni del passato devono continuare a restare blindate”, non è detto che prima o poi non la verità imbocchi la strada giusta.