Donald Trump ha alla fine riconosciuto che “una nuova amministrazione” assumerà il 20 gennaio la guida degli Stati Uniti. In un video registrato, il presidente ha per la prima volta riconosciuto la sconfitta elettorale e condannato le violenze scoppiate dopo che una folla di sostenitori, da lui stesso arringata e istigata, ha fatto irruzione al Congresso. Intanto però attorno a lui il cerchio si chiude. Si moltiplicano le richieste di impeachment, di rimozione, di dimissioni. Intanto si è dimesso il capo della polizia del Congresso, travolto da critiche e accuse sulla gestione disastrosa della sicurezza. All’uscita di Trump dalla Casa Bianca mancano ancora 13 giorni, che saranno probabilmente tra i più convulsi di una presidenza già segnata da un tasso altissimo di caos e tensione.
Il video preparato da Trump e postato su Twitter (l’unico social cui ha ancora accesso, essendo stato bloccato da Facebook) appare la cosa più vicina a una concessione formale che il presidente abbia pronunciato sinora. Dopo aver riconosciuto l’arrivo di “una nuova amministrazione” – senza però mai pronunciare il nome di Joe Biden né congratularsi con lui – Trump si impegna ad assicurare “una transizione ordinata e senza problemi” e riconosce che “questo è il momento che richiede di sanare le ferite e riconciliarci”. Trump condanna anche con durezza l’insurrezione di Washington. “Come tutti gli americani – spiega nel video – mi sento oltraggiato dalla violenza, dall’illegalità e dal disordine”, aggiungendo subito dopo di aver immediatamente dispiegato la Guardia Nazionale per bloccare l’attacco al Congresso. Fonti interne all’amministrazione hanno invece rivelato che, di fronte alle esitazioni di Trump, è stato il vice presidente Mike Pence a prendere in mano la situazione e inviare le truppe.
Trump rivendica quindi il lavoro fatto “per mitigare il coronavirus e ricostruire l’economia” e si lancia in un appello all’unità. “Avremo bisogno di lavorare insieme. Avremo bisogno di un’enfasi rinnovata sui valori civili del patriottismo, della fede, della carità, della comunità e della famiglia”. Dopo una semi-giustificazione delle sue posizioni eversive di queste settimane – “il mio solo obiettivo è stato quello di assicurare l’integrità del voto” – e un invito a “mitigare gli animi”, il presidente conclude rivolgendosi ai suoi “incredibili supporters”: “So che siete delusi – dice – ma il nostro incredibile viaggio è solo all’inizio”.
Si tratta di un video inconsueto per il presidente, soprattutto per un presidente che 24 ore prima chiedeva ai suoi supporters di marciare sul Congresso. Vi si respira un senso di distacco quasi malinconico, come se Trump avesse alla fine realizzato che tutte le opzioni sono state esaurite e che deve lasciare la Casa Bianca. Nel video Trump legge da un testo preparato, senza i tradizionali inserti a braccio. Non attacca nessuno, non minaccia nessuno. Si mostra collaborativo, persino umile quando giustifica i continui attacchi alla regolarità delle elezioni con una sua voglia di verità. Difficile dire se il video gli sia stato imposto dai vertici repubblicani e da uomini della sua amministrazione, in particolare da Mike Pence, per arrivare senza altre convulsioni al 20 gennaio, oppure sia un’iniziativa dello stesso Trump, preoccupato per le ricadute legali e politiche delle sue ultime sparate.
IMPEACHMENT, RIMOZIONE, DIMISSIONI – Ieri, in un editoriale, il Wall Street Journal scriveva che “la scelta migliore” per il presidente sarebbe quella delle dimissioni. In questo modo Trump eviterebbe il problema dell’impeachment, assumendo su di sé il suo futuro come aveva fatto Richard Nixon. L’editoriale è importante perché viene da un giornale conservatore, di proprietà di un vecchio sostenitore di Trump come Rupert Murdoch. La richiesta di dimissioni è stata presentata anche da USA Today. Improbabile comunque che Trump acconsenta. Fare un passo indietro non appartiene alla sua indole e mancano meno di due settimane prima di uscire dalla Casa Bianca senza l’umiliazione di un addio imposto. Restano quindi, come possibili strumenti per forzare la sua uscita di scena, la rimozione o l’impeachment.
Entrambi, a questo punto, appaiono di difficile adozione. La rimozione di Trump sulla base del 25esimo Emendamento è stata chiesta ieri in una telefonata a Mike Pence dei leader democratici Nancy Pelosi e Chuck Schumer. Se Trump non venisse rimosso, hanno chiarito Pelosi e Schumer, i democratici sono pronti a introdurre la richiesta di impeachment. La telefonata a Pence non è casuale. Per rimuovere un presidente ci vuole infatti il consenso del vice, che consulta i ministri e che a maggioranza decide dell’incapacità a governare del commander in chief. Questi può comunque rivolgersi al Congresso: Pence e i ministri avrebbero allora quattro giorni per giustificare la loro scelta. A questo punto toccherebbe al Congresso votare: per deporre il presidente, è necessaria una maggioranza di due terzi, di solito 67 senatori e 290 deputati.
Si sa che di rimozione, sia pure in modo informale, hanno discusso alcuni ministri di questa amministrazione. Il fatto è che Pence non ne vuole sapere. Punta a presentarsi alle presidenziali del 2024 e non può fare a meno dell’appoggio della base elettorale di Trump, già indignata perché Pence ha presieduto alla riunione del Congresso che ha decretato la vittoria di Biden. Per Trump, la rimozione equivarrebbe alla sua fine politica e Pence è un amministratore troppo attento di se stesso per fare un errore di questo tipo. Rimane, quindi, l’opzione dell’impeachment, che però appare altrettanto improbabile. La richiesta verrà preparata nelle prossime ore da alcuni membri democratici del Congresso – Ilhan Omar, Ted Lieu, Jamie Raskin e David Cicilline – secondo cui Trump avrbbe “volutamente incitato alla violenza contro il governo degli Stati Uniti” e rappresenterebbe “una minaccia alla sicurezza nazionale, alla democrazia e alla Costituzione”.
L’impeachment ha però bisogno di un percorso più lungo rispetto alle due settimane scarse che restano a Trump alla Casa Bianca. Una buona maggioranza di repubblicani non sembra del resto particolarmente turbata dall’incitamento alla violenza compiuto ai danni del Congresso – tanto da aver sostenuto, anche dopo l’assalto, la tesi delle elezioni truccate. È dunque escluso che i democratici possano avere la maggioranza dei due terzi per cacciare Trump.
Trump può, quindi, dormire sonni relativamente tranquilli. A meno di clamorosi colpi di scena, resterà alla Casa Bianca fino al 20 gennaio. Probabile che, in questi giorni, veda comunque pezzi del suo mondo dissolversi. Ieri, per protesta contro “la condotta priva di coscienza” del presidente, si è dimessa la segretaria all’educazione Betsy DeVos. DeVos è secondo membro del governo degli Stati Uniti a dimettersi, dopo la segretaria ai Trasporti Elaine Chao, moglie di Mitch McConnell. Sono otto, in totale, i membri dell’annibistrazione che hanno rassegnato le dimissioni dopo l’attacco al Congresso.
QUESTIONI DI SICUREZZA – Ieri ha dato le dimissioni il capo della polizia del Congresso, Steven Sund. Dimissioni anche per i sergeants-at-arms di Camera e Senato, Paul Irving e Michael Stenger. Mentre i sergeants-at-arms sono responsabili della sicurezza delle loro rispettive camere, il capo della polizia gestisce circa 1800 agenti di servizio al Congresso. Le dimissioni di Sund erano state chieste da Nancy Pelosi, indignata perché “Sund non ci ha nemmeno fatto una telefonata mentre era in corso l’assalto a deputati e senatori”. E oggi un agente della Capitol Police è morto a seguito delle ferite riportate negli scontri di mercoledì, Brian D. Sicknick.
I tre dimissionari rappresentavano i vertici della sicurezza al Congresso. Tutti adesso riconoscono che qualcosa di molto importante non ha funzionato. “Non c’erano abbastanza agenti – ha detto il democratico Schumer -. E la domanda è. Perché? Perché non sono stati fatti arrivare prima? E perché non sono arrivati dopo?”. In effetti, della manifestazione dei supporters di Trump si sapeva da settimane. Sui social giravano accenni espliciti alla possibilità dell’insurrezione armata. Questa era anzi la terza manifestazione nel giro di qualche settimana a sostegno della tesi sulle elezioni truccate. Una di queste, a dicembre, aveva provocato scontri e feriti. La possibilità che succedesse qualcosa era quindi alta ma, nonostante questo, nessuna azione a livello preventivo è stata presa. Anzi, l’intero contingente della Guardia Nazionale è stato mobilitato soltanto dopo l’esplosione degli incidenti. “Un fallimento senza precedenti dei sistemi di sicurezza del Congresso, che va immediatamente indagato”, ha detto Mitch McConnell.