Musica

Alessio Arena, uno dei figli più colti e raffinati di Napoli e tra i migliori cantautori italiani

Nessuno ci può obbligare a rinchiudere la vita in frontiere della fame / è un impulso naturale scritto nelle coordinate del destino / è la storia del mondo siamo figli di un eterno movimento…

E’ il ritornello de Il paese che non c’era, il singolo che anticipa il nuovo album dello scrittore e cantautore Alessio Arena, accompagnato dal suggestivo video di Tato Strino e Julian Morra, con la partecipazione straordinaria di Sil Marti. Alessio Arena è uno dei figli più colti e raffinati di Napoli, tra i migliori cantautori italiani, canta in diverse lingue e scrive libri, testi e musiche per il teatro. Ha duettato con nomi importanti della world music internazionale, come Manuel García (Cile), Marta Gómez (Colombia) e Miguel Poveda (Spagna). Un talento sospeso sul mare che divide e unisce Napoli e Barcellona, dove Alessio vive.

“Il sogno di infinite migrazioni”, il viaggio e l’utopia, come condizione esistenziale, sono il baricentro della scrittura di Alessio. Il suo ultimo romanzo, La notte non vuole venire (Fandango Libri, 2018), è ispirato alla vita della cantante napoletana Gilda Mignonette. L’ultimo viaggio della “Regina degli emigranti” arrivata in America nella prima metà del secolo scorso. Viaggi della speranza alla ricerca di una vita dignitosa ma anche di noi stessi, per migliorarsi perché “ogni uomo cerca il suo modo per fiorire”.

Dove finisce la musica e inizia la narrazione e viceversa?

“Io cerco di lavorare in quello spazio dove musica e letteratura si sfiorano continuamente, in una frontiera in cui i due linguaggi si complementano e si appoggiano sulla loro radice comune, che è la diffusione di una storia. Personale, realistica, inventata, più lirica che narrativa, ma si tratta sempre di quello, di mettere in movimento un racconto attraverso la voce, cantata o scritta. Un romanzo, insomma, può dare origine a molte canzoni, così come una canzone può inspirare una narrazione più ambiziosa e dilatata nello spazio, com’è un libro. Quello che faccio non ha assolutamente niente di nuovo. È il fuoco primordiale della nostra cultura.

Qual è la strada per raggiungere “il paese che non c’era” e portarlo nel presente?

Avere un’utopia, nonostante la società in cui siamo immersi si impegni per metterla a tacere. Lo sappiamo tutti che le utopie hanno fatto muovere il mondo, come il desiderio di una vita degna ha spinto i nostri nonni a lasciare la terra che li aveva visti nascere per attraversare l’oceano e tentare fortuna altrove. L’emigrazione, la sua storia e le sue storie, è uno dei punti ossessivi di quello che scrivo e compongo. Sono un emigrante anch’io, ma di prima categoria. Non sono stato discriminato per il mio passaporto, né per la mia origine. Questo privilegio mi fa sentire il dovere di dover raccontare anche altre forme di emigrazione.

Qual è il tuo background?

Ammiro molto la canzone d’autore italiana. Battiato, Fossati, De André. Ho un debole per Sergio Endrigo, ho interpretato Tenco prima di misurarmi con qualsiasi altro autore, ma la mia formazione musicale possiede altre coordinate geografiche, ovvero linguistiche. Il fatto che parte della mia famiglia si sia trasferita in Spagna quando avevo sei anni mi ha messo in contatto con un’altra tradizione musicale. Non solo io, ma anche mio fratello Giancarlo (cantautore e musicoterapeuta) si è formato sul repertorio di Mercedes Sosa, Joan Manel Serrat, Silvio Rodríguez e Pablo Milanés. La lista è infinita e proporzionale alla mole di autori e interpreti che riuscivamo a scaricare illegalmente.

Quanto è difficile farsi conoscere, per un artista che si divide tra Napoli e Barcellona?

È difficile far conoscere un lavoro artistico che abbia delle ambizioni che si spingono un po’ al di là del semplice intrattenimento. Ed è difficile dividersi tra due paesi, come dici tu. Eppure io sono il prodotto di questo, di una vita divisa. La mia preoccupazione è che quello che scrivo e canto abbia davvero a che fare con me, con quello che davvero ho vissuto o quello che ho davvero immaginato. Spesso, non lo nego, mi sento orfano di Napoli. Ho inciso il mio disco più recente in uno studio del mio quartiere d’origine, il Rione Sanità, ho partecipato a diverse attività culturali legate al territorio. Ma la sensazione di sentirmi a casa l’ho persa un po’.

A breve uscirà, per Fandango, il tuo nuovo libro. Di cosa parla?

È una storia corale d’amore e di rivoluzione. I protagonisti sono due contadini lucani che, negli anni Venti del secolo scorso, vivono una diversità difficilmente accettabile per l’epoca. La vita li porterà a viaggiare in un mondo lontano, nelle raffinerie di salnitro che, in quel tempo, costellavano il deserto del nord del Cile. Il romanzo segue anche la storia di una pianista ligure che sonorizza film nel cinematografo di una di queste raffinerie, attorno alle quali si costruivano vere e proprie città, e di una “maciara” lucana, una misteriosa cantatrice popolare che attraverserà l’oceano per recuperare il proprio marito.

Sei molto legato al Sudamerica, lo citi continuamente, cosa ti affascina del sud del mondo?

La sua musica e la sua letteratura, per cominciare. Se la musica è stata la mia spinta a comporre e cantare, sulle letterature ispanoamericane ho costruito la mia irregolare e tardiva formazione universitaria. L’America Latina è stato sempre il continente sognato, quello delle mitologie degli scrittori amati come Arenas, Rulfo e Bolaño. Poi ci sono andato per un lungo e bellissimo tour. Poi mezza famiglia mia è diventata cilena. Poi ho attraversato io stesso il deserto, quando era fiorito. Le storie che potrei raccontare sono tante.

In questi anni più che mai sembra sia diventato ancora più difficile emergere, per chi non si omologa ai contenuti, ai linguaggi e alle mode musicali del momento. Come vivi queste difficoltà?

Malissimo. E mi viene da ridere mentre lo scrivo. Ma la mia musica e la mia scrittura, che somigliano in tutto e per tutto a me, hanno le stesse difficoltà che ho io come persona, come essere umano. Non ho moltissimi amici, ma tutti buoni, tutte relazioni basate su un interesse profondo.

Sei abituato a viaggiare tanto sia fisicamente che artisticamente, dove e quando ti senti a casa?

Ah, ecco, proprio quello a cui accennavo prima. Mi sento a casa quando sto con la persona che amo, con le persone che amo. Pure se poi mi isolo, e cerco di non farlo notare. Ci sono viaggi meravigliosi che, come dici tu, uno può fare senza muoversi fisicamente. Magari un giorno mi sentirò a casa pure in una canzone o in un romanzo. Chi ‘o ssape.