Rapito per impedire a suo padre di collaborare con la giustizia. E poi ucciso e sciolto nell’acido. Venticinque anni fa veniva assassinato il piccolo Giuseppe Di Matteo. Ad Altofonte, in provincia di Palermo, è stato ricordato l’omicidio compiuto l’11 gennaio 1996 da mafiosi guidati da Giovanni Brusca. Il sindaco del Comune Angela De Luca ha organizzato una manifestazione nel salone parrocchiale della Chiesa madre Santa Maria alla quale hanno preso parte il fratello di Giuseppe, Nicola Di Matteo, l’assessore regionale Roberto Lagalla, il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, il presidente del parlamento della legalità Nicolò Mannino e numerosi sindaci del comprensorio.

“E’ la prima volta che partecipo a iniziative che ricordano la memoria di mio fratello perché ancora oggi provo un dolore enorme per quanto è accaduto. Mio fratello è vivo nella memoria di tutti, ma avrei preferito morire io al suo posto”, ha detto il fratello del piccolo Giuseppe, oggi trentottenne. “La mafia non è cambiata, c’era e c’è ancora – ha sottolineato Fava, presidente della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana -. Ha solo cambiato strategia, ma è presente come e più di prima. Tutti vanno ad Auschwitz per vedere i forni crematori, provando inevitabile orrore. Eviteremmo di vendere chiacchiere, se andassimo nei luoghi in cui la mafia ha seminato orrore, come il Giardino della Memoria, accorgendoci delle atrocità di quanto è accaduto”.

All’incontro ha anche partecipato in collegamento telefonico Nicola Morra presidente della commissione nazionale antimafia. “Per quale motivo – ha detto Morra – i carcerieri del piccolo Di Matteo erano incappucciati? I mafiosi tra di loro si conoscono. E’ possibile che anche nel rapimento e nell’uccisione del piccolo Di Matteo siano coinvolti pezzi dello Stato che cercavano di bloccare insorgenza di una coscienza civile?”. Ha preso la parola anche Monica Genovese avvocato della famiglia del piccolo Di Matteo che assiste il fratello Nicola e la madre Franca Castellese. “In questi anni – ha detto – duranti tutti i processi nelle varie aule di tribunale due sono gli aspetti che è giusto sottolineare in questo giorno: il primo è che da parte degli assassini non sono arrivate mai le scuse alla famiglia per l’orrendo delitto. La famiglia avrebbe voluto le scuse che non sono mai arrivate. Il secondo è che accanto agli uomini hanno commesso questo delitto c’erano tantissimi testimoni, mogli, figlie e figli. Nessuno di loro ha avuto il coraggio e la forza di denunciare quanto di orribile stava avvenendo nelle campagna siciliane in oltre 779 giorni di prigionia”.

Figlio di Santino Di Matteo, boss poi pentito, il piccolo Giuseppe fu tenuto prigioniero per tre anni. Prelevato il pomeriggio del 23 novembre 1993 da un maneggio di Villabate, il ragazzino fu portato via un commando di mafiosi camuffati da agenti della Dia che lo convinsero a salire in auto raccontandogli che avrebbero dovuto portarlo dal padre. ‘’Papà, amore mio’’, esclamò il ragazzino, e quelle parole segnarono l’inizio di un incubo concluso la sera dell’11 gennaio 1996 quando Brusca apprese dalla tv che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo reagì ordinando l’omicidio del piccolo Giuseppe, tenuto attaccato ad una catena e ridotto ormai ad una larva umana. A strangolarlo furono Enzo Chiodo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e il corpo fu poi disciolto nell’acido. Il giorno dopo il sequestro ai familiari del ragazzo fu recapitato un biglietto con la scritta ‘’tappaci la bocca’’, chiaro segnale per il padre Santino, che aveva iniziato a rivelare i segreti delle stragi mafiose. Ma a svelare gli ultimi dettagli del rapimento è stato Gaspare Spatuzza, componente del commando che rapì il ragazzino nel ’93: il pentito ha chiesto perdono alla famiglia, ma né Santino Di Matteo, né la moglie Franca Castellese, hanno accettato la richiesta.

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