Si parla di social network che potrebbero d’ora in poi, a causa degli interventi contro Donald Trump, diventare di parte. Non so se ci si rende conto che da anni gli account di migliaia di persone in tutto il mondo – militanti, giornalisti indipendenti, attivisti politici e per i diritti umani – vengono sistematicamente oscurati dalle principali piattaforme.
Fino a che condividi ciò che cucini o indossi va tutto bene, ma se parli di politica devi da sempre fare attenzione a farlo in un certo modo. In Palestina basta essere quotidianamente attivi contro l’occupazione israeliana nei Territori o criticare apertamente l’ideologia e le politiche di Israele per avere l’account chiuso. Avviene anche in Egitto e in molti altri paesi che vivono una profonda propagazione e repressione del dissenso, come la Turchia e il Kurdistan. Le pagine che informavano sull’invasione turca del Rojava sono stati chiuse o sospese ovunque nel mondo, non solo nei territori interessati.
Dopo le rivolte di dieci anni fa nei paesi nordafricani e mediorientali, che ebbero nei social una cassa di risonanza autonoma e condivisa dal basso, gli stati sono corsi ai ripari. Ciò che è posseduto da un singolo individuo non è per definizione “libero” ma dal 2011 il web 2.0 è davvero diventato incarnazione quotidiana della più umiliante lesione sistematica del diritto alla libertà di espressione (pur sancito dell’Onu nel 1948) di chiunque faccia proprie istanze di sostanziale critica verso dei potenti poteri costituiti.
In Europa la situazione è solo apparentemente diversa. Il fenomeno è meno conosciuto perché più circoscritto, in quanto circoscritto in Europa è il dissenso ed esso non fa alcuna paura alle istituzioni. Quando così non fosse, in futuro, i nodi verranno al pettine. Per ora, per essere censurati, è sufficiente sostenere le ragioni di chi lotta per i diritti umani all’estero.
Nel 2017 YouTube ha oscurato il video di un’intervista che avevo rilasciato in Siria quando ero arruolato nelle Ypg curde; nel 2018 Facebook ha disattivato la mia condivisione dell’intervento di una studentessa palestinese all’Università di Torino che denunciava la condizione del suo popolo come inaccettabile. Dal 2018 il mio profilo, sul quale informo sulla situazione in Siria denunciando i crimini dell’Isis, della Turchia e di Assad, è stato chiuso svariate volte senza preavviso né spiegazioni. Ogni volta ho dovuto crearne uno nuovo, che puntualmente dopo qualche mese viene disattivato.
In un’occasione Facebook mi ha indirizzato a una sua pagina dove venivano elencati decine di governi (tutti in buone relazioni con gli Usa: tra essi Italia, Israele e Turchia) che avevano chiesto alla piattaforma di non rendere visibili determinati contenuti. Invocare il controllo degli Stati anziché dei privati non tiene conto del fatto che il potere statale si impone anche marginalizzando e oscurando il dissenso politico, e che le attività di censura (compresa quella nei confronti di Trump) non avvengono senza forme di coordinamento con le istituzioni, che pure possono essere attraversate da contraddizioni al loro interno (ma vale anche per i privati).
Maria Edgarda Marcucci, cittadina italiana cui è negato il diritto di parola in pubblico per decisione preventiva dello stato (avendo combattuto l’Isis in Siria sarebbe diventata pericolosa), vede il suo account Instagram chiuso continuamente (anche in questo momento è oscurato), soprattutto quando prende parola sulla sua condizione e la solidarietà sul web si scatena.
L’unica eccezione rappresentata da Trump è che lui ha potuto fare il bello e il cattivo tempo per anni mentre per noi è stato impossibile avere la stessa disinvoltura, pur diffondendo contenuti – spero – più utili e meno stupidi. Lui ha subito limitazioni in via eccezionale ed estrema soltanto negli ultimi giorni, con i social che si sono peritati (come dovrebbero fare sempre) di fornire a lui e al pubblico spiegazioni sul loro intervento. Nella sua posizione economica non dubito che avrà modo di far sentire la sua voce altrimenti, cosa che non vale invece per i palestinesi, i curdi o gli altri sotto le bombe o dietro le sbarre ad opera di governi con cui queste piattaforme non hanno mai cessato di coordinarsi.
Non v’è autorità morale nei colossi del big tech, né negli stati nazionali cinici che si servono da sempre della loro metodica censura. Un’autorità morale oggi nel mondo non c’è, e l’unico spazio da riempire sono i nuovi social network indipendenti.