Facebook e Twitter sono pubblici o privati? Questa domanda, apparentemente banale e dalla risposta certa (“che domande! Sono privati!”) non lo è così tanto, e la risposta non è così scontata. La questione si ripropone adesso, ovvero a ridosso del ban che i colossi dei social network hanno inflitto all’uomo più potente del mondo, al Commander in Chief silenziato da due imprese ‘private’, che però fanno parte di una piattaforma fondamentale per la vita di quasi ogni cittadino su questo pianeta.

È noto a tutti che Donald Trump ha in effetti fatto uso dei social in modo improprio, ma la domanda che in molti si sono fatti dopo il ban è: è degno di una democrazia liberale, è proprio di uno Stato di diritto, silenziare la voce di un politico? Ovvero è giusto, in nome della repressione dell’hate speech che condurrebbe alla violenza, togliere la parola a una persona? A rigore, Twitter e Facebook sarebbero imprese private, e per quanto – come tutte le imprese – siano tenute al rispetto di Costituzioni e leggi, esse stipulano un contratto con gli utenti: se non lo rispetti, io ti caccio. E così hanno fatto con Trump.

La questione sembrerebbe essere risolta, dunque. Invece non è così, dal momento che Internet è ormai diventato un ‘luogo’ nel quale si esercitano diritti, o l’accesso al quale garantisce l’esercizio di diritti (si pensi alla libera formazione del pensiero e dell’opinione pubblica) che hanno una dimensione pubblica. Dunque è troppo semplice rispondere che i social sono un luogo ‘privato’, che Internet è come una sorta di piazza e i siti sono come dei negozi nei quali, se entri e cominci a rompere tutto, ti butto fuori. Ed è troppo inattuale sostenere che Internet è (ancora) il luogo della totale anarchia.

In Italia, ormai dieci anni fa, Stefano Rodotà aveva proposto la costituzionalizzazione dell’accesso a Internet, ovvero l’inserimento di un art. 21-bis nella Carta che recitasse: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Ne è scaturito un dibattito che comunque non riguarda solo l’Italia, con proposte di legge o di riforma costituzionale. In Grecia una cosa del genere era già avvenuta nel 2001. Nel 2015 l’Italia ha approvato una Dichiarazione dei diritti di Internet, in cui si riprendono le riflessioni di Rodotà.

Il punto, tuttavia, è che i soggetti di cui discutiamo – non solo i social, ma alcuni altri mastodontici operatori, come Google per esempio – sono poteri politici ed economici pari se non superiori a molti Stati. E ancora, la questione è che i poteri politici ed economici operano a più livelli, e non sono riducibili a un territorio e a una popolazione. Facebook e Twitter esercitano una ‘giurisdizione globale’ di fatto sui loro utenti. Dunque essi sfuggono alla dicotomia pubblico-privato, che gli si attaglia male, dal momento che sono sì imprese private, ma con una decisiva dimensione pubblicistica. Sempre Rodotà ha collegato le piattaforme a quella sorta di tertium genus costituito dai ‘beni comuni’. Internet come l’acqua, ha sostenuto Vinton Cerf, uno dei ‘padri’ della Rete.

Non voglio qui discutere lo statuto di una categoria assai traballante come quella di ‘beni comuni’. Rimane tuttavia il fatto che considerare Internet e le piattaforme social come strutture private è anacronistico. Se è così, e se tali piattaforme sono un coacervo di pubblico e privato, allora non è sufficiente il rispetto dei contratti, ma occorre che vi siano delle regole ‘costituzionali’ proprie di questi soggetti, che regolino l’accesso, il contenzioso, e in generale la tutela dei diritti legati all’uso (l’habeas mentem) che vanno ben al di là delle regole del diritto civile.

Di fatto, queste regole costituzionali globali i gestori le hanno già, ma se le sono date da soli (come la lex mercatoria è la ‘costituzione’ degli affari che le imprese si sono date da sé a livello globale). Occorre un processo invece in cui il costituzionalismo significhi procedure pubbliche e trasparenti di affermazione di diritti.

Rimane un punto: quale autorità giurisdizionale sovranazionale? Quale ‘polizia dei social’ pur in presenza di regole costituzionali dell’Internet ‘globale’? La risposta potrebbe stare nel ruolo delle corti interne e delle corti sovranazionali, che applicherebbero localmente diritti sanciti globalmente. Ma in quel caso il problema si ripresenterebbe: quale legittimazione democratica per il potere transnazionale delle corti?

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