Quando e come finirà la pandemia di Covid-19 attualmente in corso? Le epidemie finiscono quando la popolazione raggiunge un certo livello di immunità a causa del vaccino o del contagio. Non è facile stimare esattamente il livello di immunità di popolazione necessario, perché alcuni fattori che concorrono a determinarlo non sono noti con certezza: ad esempio quanto sia ampia la variabilità genetica nella suscettibilità al contagio. Ciononostante la stima più o meno accettata nella comunità scientifica è che per fermare l’epidemia sia necessaria l’immunizzazione di almeno il 60% della popolazione.

Nel corso dell’epidemia sono stati sollevati dei dubbi sull’effettiva validità di questo tipo di stime per due ragioni: che l’immunità ottenuta attraverso la malattia o il vaccino sia di durata e intensità insufficiente a prevenire le reinfezioni (rare reinfezioni sono state documentate); e che le possibili mutazioni del virus possano rendere inutile l’immunità acquisita.

Entrambe questi possibili problemi sono stati però sopravvalutati, nel clima di panico generalizzato che si è diffuso intorno al Covid-19, quasi che questa fosse la prima o la peggiore pandemia che l’uomo ha affrontato nella sua storia. E’ stato praticamente dimenticato che l’influenza spagnola del 1918 ha registrato una letalità compresa tra il 5 e il 10%, dieci volte superiore a quella del Covid-19, o che la letalità del vaiolo ha oscillato in diverse epidemie tra il 2% e il 40%, o che il morbillo in popolazioni non immuni ha registrato letalità e mortalità fino al 25%, come accadde ad esempio nell’epidemia delle isole Fiji del 1875.

Due studi molto recenti danno indicazioni importanti. Il primo, pubblicato sulla rivista Science pochi giorni fa, misura la durata dell’immunità in malati guariti fino ad 8 mesi fa (ed essendo il Covid-19 una malattia di insorgenza recentissima è difficile andare più indietro nel tempo) e conferma che una valida immunità persiste per tutto il tempo considerato senza affievolirsi.

Gli autori non si sono limitati a studiare il calo nel tempo degli anticorpi specifici, già osservato e documentato, ma hanno misurato la persistenza nel tempo delle cellule della memoria immunitaria, i linfociti B e T specifici per il Covid-19, ed hanno dimostrato che le componenti della difesa immunitaria hanno variazioni temporali diverse e che i linfociti B specifici per il Covid-19 addirittura aumentano anziché diminuire nell’intervallo di tempo considerato.

Questo comportamento del nostro sistema immunitario non è inatteso: è invece più o meno comune nelle sue linee generali per qualsiasi malattia infettiva. Ad esempio nella pandemia di influenza del 2009 la letalità fu bassa perché gli anziani erano scarsamente colpiti dalla malattia e fu possibile dimostrare che questa selettività era dovuta all’immunizzazione da loro conseguita nel corso di epidemie influenzali precedenti, avvenute fino al 1960: la memoria immunitaria aveva resistito per oltre cinquant’anni!

Questa osservazione ci porta alla seconda domanda: in quale misura le mutazioni del virus possano vanificare o aggirare la memoria immunitaria. E’ ben noto che le epidemie annuali di influenza si verificano a causa delle mutazioni virali: ogni anno il ceppo virale prevalente è diverso da quello dell’anno precedente, contro il quale gran parte della popolazione si è immunizzata. Ciononostante, il virus influenzale dell’anno in corso e quello degli anni precedenti non sono così completamente diversi da vanificare completamente l’immunità di popolazione come accadde nel 2009, e si stima che in media in ogni epidemia annuale di influenza sia parzialmente immune più della metà della popolazione.

Uno studio attualmente in fase di pre-pubblicazione analizza le varianti genetiche del Covid-19 finora emerse e suggerisce che anche per questo virus si verifichi lo stesso fenomeno: ovvero la maggioranza delle varianti virali continua ad essere riconosciuta dagli stessi anticorpi e soltanto per una delle varianti finora emerse si osserva una riduzione molto significativa dell’immunizzazione.

In ultima analisi queste pubblicazioni confermano che la pandemia in corso si comporta come tutte le pandemie del passato, ed ha anzi una letalità inferiore a molte di quelle (attualmente stimata intorno allo 0,7% dei casi, con grande variabilità in relazione all’età media della popolazione colpita). La gravità della pandemia è data dalla novità del virus, a causa della quale l’intera popolazione è potenzialmente suscettibile, fatta salva la variabilità genetica nella risposta all’infezione. Gli anziani, che nel caso delle epidemie causate da virus già noti sono spesso parzialmente protetti, risultano completamente suscettibili al Covid-19 e quindi particolarmente a rischio a causa della ridotta riserva funzionale dei loro organi, fisiologica per l’età.

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