A Non è l’arena, su La7, si processano le vittime di stupro. E’ quello che è accaduto nella vergognosa puntata di domenica sera che si è occupata del caso di Alberto Genovese, l’imprenditore arrestato lo scorso autunno con l’accusa di aver stuprato una donna durante una festa nel suo attico a Milano. Dopo l’arresto, altre donne hanno denunciato Genovese per averle drogate e stuprate durante altre feste, a Milano e Ibiza.
Quale fosse il punto di vista della trasmissione, a mio parere, è stato subito evidente dalla disposizione degli ospiti nello spazio, che rispecchiava il ruolo che avrebbero avuto.
Al centro della scena, sotto ad una giganteggiante immagine di Genovese, erano seduti i suoi fedelissimi amici, Daniele Leali e la moglie Marilisa Liosi. Alla loro destra e sinistra, marginali rispetto alla scena, Luca Telese, la psicologa Stefania Andreoli e Nunzia di Girolamo. In collegamento, quindi al di fuori di quello spazio, Ivano Chiesa, il rappresentante legale di due delle vittime. Non credo affatto che sia stato un caso che Massimo Giletti sia quasi sempre rimasto a fianco di Daniele Leali e di Marilisa Liosi e non credo affatto che sia un caso che si sia sempre riferito a Genovese con deferenza (lo ha sempre chiamato dottore) e con supponenza alle vittime che ha chiamato “ragazzine”.
I media italiani continuano a vittimizzare le donne che denunciano o muoiono di violenza, sollevando i violenti dalle proprie responsabilità, evitando accuratamente di affrontare il problema del dominio maschile e della violenza che viene agita per mantenerlo. Le disparità di potere tra uomini e donne non vengono mai indagate, perseverando in una rimozione che non aiuta a prendere coscienza di una grave violazione dei diritti umani.
Viene ignorata la Convenzione di Istanbul come se fosse carta straccia e anche se nella Carta deontologica dei giornalisti è stato aggiunto l’articolo 5 bis per evitare discriminazioni di genere e vittimizzazioni secondarie sui media, si continuano a rappresentare le donne come colpevoli del proprio stupro e persino della propria morte. Se sopravvivono e svelano l’indicibile che per millenni sono state tenute a tacere sono punite con la denigrazione pubblica della loro immagine, soprattutto se alla disparità di genere si somma la disparità economica.
A Non è l’Arena le responsabilità del ricchissimo imprenditore milanese sono state attenuate nella messa in scena di un processo arcaico, che ha elevato al ruolo di giudici un uomo e una donna, a lui legati da amicizia e da affari. Marilisa Loisi e Daniele Leali – al contrario degli altri ospiti Luca Telese e Stefania Andreoli, indignati ma continuamente interrotti – hanno avuto molto tempo a disposizione per accusare, denigrare, screditare le vittime fino a banalizzare la violenza (“Alberto ha esagerato”, “è stata una esagerazione”). A loro è stato concesso l’agio, fino agli ultimi minuti della trasmissione, di accanirsi sulle vittime: Daniele Leali ha definito “prestazione” una violenza senza che Massimo Giletti intervenisse per stigmatizzare le sue parole.
D.I.Re – donne in rete contro la violenza ha criticato duramente Non è l’arena per aver trasformato in spettacolo la vittimizzazione secondaria di donne che hanno denunciato una violenza.
Per due ore sono stati affermati con forza tutti pregiudizi sullo stupro, compresi giudizi morali sulle vittime e bassi pettegolezzi sulle loro condotte sessuali, degradando quella che doveva essere una informazione cosciente e corretta, ad un tritacarne mediatico dal quale le vittime sono uscite a pezzi. Un brutto spettacolo che ha ricordato il documentario Processo per stupro, realizzato nel 1979 da Loredana Rotondo e che fu la denuncia pubblica di quanto avveniva alle vittime che chiedevano giustizia e che si trovavano invece trattate da imputate, sottoposte a violenze psicologiche nelle aule che avrebbero dovuto ascoltare con rispetto la loro testimonianza.
La strategia è sempre la stessa: mettere sotto giudizio i comportamenti delle vittime, riferirsi a fatti che nulla hanno a che vedere con l’accusa di stupro, esprimere giudizi moralisti, far credere che essere ubriaca o drogata costituisca una attenuante per l’aggressore – mentre è una aggravante convincere che lo stupro non c’è stato perché la vittima lo ha voluto o lo ha provocato.
Il processo ad Alberto Genovese non è ancora cominciato, ma sui media italiani da mesi si processano e condannano le vittime.
@nadiesdaa