di Laura Quarà *
L’isolamento dovuto alla pandemia Covid-19 ha incrementato l’utilizzo del web e dei social media ma ha anche acuito il fenomeno dell’odiatore social schermato dall’anonimato e quindi caratterizzato da una fragile “egosfera”.
Secondo la Mappa dell’Intolleranza 5.0 disegnata da Vox, l’Osservatorio Italiano sui Diritti che fotografa l’odio via social, nel 2020 le donne sono state il maggior bersaglio dei “leoni da tastiera”, rispetto al 2019 (in cui si sono registrati- 49,91 dei tweet negativi) soprattutto se lavoratrici, con un vero e proprio attacco alle competenze e alle professionalità.
L’analisi di questo fenomeno è a mio avviso molto più ampia e a monte di questa situazione e dei diversi contributi che sono stati forniti sull’argomento, mi vorrei soffermare su un fattore culturale che ritengo fondamentale soprattutto quando la narrazione avviene via social media, individuato come “catena del rimpallo circolare delle responsabilità” attraverso la quale viaggiano stereotipi e pregiudizi che sbilanciano i ruoli delle vittime e degli autori della violenza.
La giornalista del Sole 24 Ore Manuela Perrone, nell’ambito di un programma formativo per giornalisti dal titolo “Progetto Step – Stereotipo e Pregiudizio: per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media” sostiene con forza la necessità di spezzare questa catena che porta a una percezione errata del fenomeno, per cui a sembrare colpevoli sono le donne.
L’avv.ta Ilaria Boiano – penalista – sottolinea che nei casi di violenza di genere, “gli stereotipi compromettono l’effettività dei diversi livelli in cui si concretizza l’accesso alla giustizia, l’accertamento dei fatti e, di conseguenza, delle responsabilità, incidendo sulle prove che si ammettono, sulle modalità con le quali si procede all’istruzione di un processo, sulla percezione dei giudici rispetto ai fatti e sull’attendibilità” dei soggetti coinvolti nel procedimento.
La circolarità delle responsabilità si evidenzia maggiormente dal modo in cui le notizie dei media ufficiali giungono ai social media e viceversa; infatti secondo l’Osservatorio VOX Diritti i picchi di tweet contro le donne, in cui sono state utilizzate parole intolleranti, tutte a sfondo sessuale sono stati “matchati” con eventi definiti scatenanti come ad esempio casi di femminicidio o di violenza sessuale.
In concomitanza con il rafforzamento degli stereotipi, su internet e sui social media “le notizie che rinforzano gli stereotipi sono l’84%” (Fonte Vox).
Lo stereotipo viene definito da Federico Faloppa nel suo libro #Odio – Manuale della resistenza alla violenza delle parole (Utet, 2020) – come un discorso – l’odio – che viene da lontano. Lo stereotipo secondo l’autore, è sempre falso perché si tratta di una scorciatoia mentale a cui si ricorre per valutare o prevedere un certo comportamento di una persona o di un gruppo di persone, senza nessuna base oggettiva.
Rispetto al pregiudizio, che rappresenta un “prius” cognitivo verso un individuo, lo stereotipo è un “prius” cognitivo verso un gruppo.
La piramide dell’odio poggia sullo stereotipo e sul pregiudizio le sue fondamenta, e se è vero che di “hate speech” (parole d’odio) si parla tecnicamente da poco, entrambi sono invece fenomeni – di lunga durata – radicati già nella costruzione culturale della Grecia Classica (ad esempio un luogo comune – topoi – era già allora l’inferiorità del genere femminile).
Rispetto agli anni 90 – dove l’hate speech era offline e rappresentava una “dimensione collettiva del rancore” di tipo ideologico esplicitata sulla pressione di gruppi (sociali, politici, etnici) più che dall’iniziativa dei singoli (così lo storico Giovanni De Luna), negli ultimi anni si assiste ad una aggressività individualizzata, veloce, meno incasellabile, quindi più difficile da prevedere o mediare.
Un’aggressività – secondo Faloppa – capace di fare rete, di aggregare online, pulsioni che offline spesso risultavano sopìte; un’aggressività meno ostacolata dallo stigma sociale, sempre più virtuale “laddove il bersaglio è percepito non più come una persona, ma come il generico elemento di una narrazione, un’icona, un soggetto che non conosciamo o un oggetto deumanizzato “.
Tutta colpa dei social media? No, ma come ricorda il sociologo McLuhan “il mezzo è anche il messaggio”. Ritornando ai tweet – al centro dell’analisi di Vox Diritti – risulta che un italiano su tre ha ri-twittato frasi d’odio contro le donne. Essendo infatti ri-twittabili con un solo click, i messaggi possono essere replicati ad oltranza (la replicabilità costituisce una della quattro proprietà delle relazioni sociali che si instaurano nelle interconnessioni pubbliche e virtuali, insieme alla scalabilità [visibilità], ricercabilità [facilità di…] persistenza [per la possibilità del messaggio di essere rintracciato]).
Ai miei tempi si scriveva il diario, che raccoglieva sentimenti, confidenze e segreti che chiudevamo nel cassetto a chiave. I social media sostituiscono l’esperienza diretta dell’incontro tra corpi con una percezione filtrata, influenzata dalle caratteristiche del medium e del messaggio. Siamo così privati di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento e di comprensione delle emozioni proprie e degli altri, generando una sorta di “analfabetismo emotivo” che potrà avere ripercussioni importanti sulla struttura delle relazioni interpersonali.
*Psicologa del Lavoro, esperta di Mobbing , Straining e Stress Lavoro Correlato